“Sono io che la ringrazio!” Elogio effimero di una parola precaria.

Pablo Neruda soprattutto quando scriveva non le sceglieva mai a caso: “Una sola parola, logora, ma che brilla come una vecchia moneta: Grazie!”. E allora grazie andrebbe detto. Sempre. Ce lo insegnano da bambini e quando alla messa rendiamo grazie a Dio. Poi ce lo dimentichiamo.
Poi ci sono dei privilegiati. Gli edicolanti, i benzinai e i tabaccai ad esempio che la ripetono alcune centinaia di volte al giorno: per loro la vecchia moneta di Neruda vale magari pochi centesimi ogni volta, ma vale. Se il Paradiso è una somma di grazie, loro sono già almeno in Purgatorio. La dicono spesso anche i pochi casellanti rimasti, i lavavetri ai semafori, i parcheggiatori abusivi, i commessi del negozio e i cassieri del bar ma solo se il negozio e il bar non è il loro e siamo in zona gialla. Lo dicono i rider quando gli date la mancia.
Perché il grazie è una roba da job acts con annesso contratto precario.
Non ti dicono grazie i dipendenti pubblici, non ti dicono grazie i ristoratori, non ti dicono grazie idraulici, elettricisti e medici specializzati che paghi in nero e non ti dicono grazie nemmeno i politici che hai eletto. Inutile aspettarselo. Poi ci si rimane male. E così ho deciso di non avere più aspettative e da solo ho deciso di ringraziare tutti. A prescindere.
Quando compro qualsiasi cosa sono io che ringrazio per aver voluto acquistare. Quando incontro qualcuno che ho eletto lo ringrazio per aver accettato il mio consenso. Quando mangio al ristorate ringrazio chi usa gentilmente la mia carta di credito dopo il conto. E ringrazio l’idraulico che mi fa risparmiare l’iva quando lo pago in nero.
Non so ancora perché lo faccio, ma per non sbagliare ringrazio anche il dentista che vuole solo contanti senza ricevuta. Il sistema così funziona e persino Neruda è contento.