Garibaldi fu ferito.
E quella ferita salvò l’Italia

Questa è la storia di un eroe che non voleva essere un eroe. La storia di un gesto che avrebbe dovuto cambiare la storia e che oggi possiamo dire con certezza che la cambiò. Questa è la storia di un uomo che avrebbe voluto dimenticare quel gesto. Perché questa, soprattutto, è la storia di un atto di coraggio raccontato come atto di viltà. Questa è una storia antica in cerca di riscatto. Il bel saggio scritto a quattro mani da Arrigo Petacco e Marco Ferrari dal titolo “Ho sparato a Garibaldi”, edito da Mondadori è tutto questo e qualcosa di più.
Se ancora oggi si canticchia la canzone “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda il battaglion!” in pochi sanno chi fu a sparare all’Eroe dei Due Monti il 29 agosto 1862 sull’Aspromonte: si trattava del bersagliere Luigi Ferrari, nativo di Castelnuovo Magra, provincia della Spezia. Luigi fu l’unico eroe del Risorgimento a non poter andare fiero del suo gesto eppure fu centrale e decisivo nella stagione che fece nascere l’Italia. Lui sparò a Garibaldi per obbedire ad un ordine, ma non lo uccise perché decise di non farlo. Abbasso il fucile e mirò alla gamba. Quel gesto salvò il Risorgimento e con lui la storia del nostro Paese così come la conosciamo oggi.
«Forse non esisterebbe neppure l’Italia», ricorda oggi Marco Ferrari. Luigi di cui porta il cognome appartiene alla sua discendenza e a quella di Arrigo Petacco: «Avevano in comune la sua foto. Inevitabile pensare di scriverne insieme la storia». Quel gesto fu istintivo: «Si trovò davanti l’eroe del Risorgimento ma non lo colpì deliberatamente a morte, mirò alla gamba e al piede. E lui sapeva maneggiare bene le armi. In quello scontro sull’Aspromonte, il primo fratricida da italiani, vi furono dodici morti e una cinquantina di feriti, tutti ai piedi. Logico pensare che non volessero uccidersi tra loro. E così fece Ferrari». Ottenne la medaglia d’oro. Ma la motivazione rappresenterà il suo cruccio e la sua rovina. “Adempì all’amaro compito di comunque fermare il generale Garibaldi in marcia verso Roma. Aspromonte 1862”. Quel termine, “amaro”, gli si piantò nell’animo, nella mente, sulle spalle, e non lo abbandonò mai un solo istante.
Un tormento che i due autori descrivono così: “La notte si svegliava di soprassalto: nel sonno compariva un signore vestito di velluti a coste, berretto molle e fiocco di seta e lino di un color opaco, annodato al collo alla lavallière, che gridava: «È lui che ha sparato a Garibaldi. Traditore!». Temeva i rivoluzionari e i socialisti, i garibaldini e i mazziniani, benché in cuor suo non fosse altro che un brav’uomo che aveva risposto, appunto, all’ingrato ordine dei superiori di fermare Giuseppe Garibaldi. E quando camminava nelle viuzze o si trovava sotto gli archivolti che univano le quattro strade del suo paese, Castelnuovo Magra, svicolava via radente le abitazioni come un’ombra che non vuole confondere la propria forma con altre. Cercava, senza riuscirci, di trattenere il fiato. Anzi, il respiro si faceva sassoso, asmatico. Il cuore batteva a mille. Temeva che un folle, uno sconsiderato, un ribelle arrivasse sino a quel cucuzzolo di case sospese tra le nuvole attirato dall’idea di vendicare il generale e diventare, a suo modo, un personaggio della storia: l’uomo che aveva trafitto il cuore a Luigi Ferrari, medaglia d’oro al valore ingrato, indegno decorato della patria!”
«Mi avete colpito volontariamente in basso?» gli aveva chiesto l’Eroe dei Due Mondi a Scilla. «Fin da ragazzo sono stato abituato a tirare di caccia. Ho preso un merlo a trenta metri quando avevo dodici anni» gli aveva risposto Ferrari. Ma quel breve incontro non fu sufficiente a ridargli l’onore che meritava. Tornò a Castelnuovo Magra, ferito a sua volta e con un piede di legno, in veste di sindaco con il segno indelebile della sua poco onorevole impresa, tanto che, una volta scoperto quale feritore di Garibaldi, fu costretto ad allontanarsi. Respinto anche a Castelnuovo, Luigi Ferrari si trasferirà alla Spezia ma troverà la forza del riscatto e tornerà come sindaco una seconda volta. Morirà con la fascia tricolore alle ore quindici e cinquanta minuti di martedì 22 ottobre 1895 nella casa paterna: “Noi autori, entrambi discendenti di Luigi Ferrari, pensiamo di avergli restituito un po’ di onore svelandone la sua vita avventurosa, sconsolata e maledetta, segnata dall’amore mai vissuto per la bella Martina e da quell’episodio dell’Aspromonte, sino alla redenzione finale, restituendo il ritratto della Spezia dell’epoca, di un piccolo borgo di confine, di una comunità e di una famiglia che ha sempre difeso quel povero soldato che non aveva fatto altro che obbedire agli ordini”.