ANTON GIULIO MAJANO
L’UOMO CHE INVENTÒ LO SCENEGGIATO IN TV

Anton Giulio Majano
Alcune locandine dei film di Anton Giulio Majano

Anton Giulio Majano, un nome che forse ai più giovani risulta sconosciuto, è da considerarsi senza ombra di dubbio uno dei padri nobili del cinema e soprattutto della televisione italiana. Era l’uomo dietro alla macchina da presa (vi ricordate il film di Dziga Vertov?) che contribuì a inventare e codificare il genere dello “sceneggiato”. A lui si devono titoli entrati nella memoria di intere generazioni come La cittadella, tratto dal romanzo di A.J. Cronin, con un grande Alberto Lupo nella parte del dottor Manson, o David Copperfield, da C. Dickens, che vedeva il giovanissimo Giancarlo Giannini nel ruolo del protagonista, o ancora E le stelle stanno a guardare, sempre da Cronin, con lo stesso Giannini e Orso Maria Guerrini.

Originario di Chieti, Majano poteva contare su una buona formazione umanistica, su una laurea in scienze politiche e su un passato di ufficiale di cavalleria. Da vero uomo d’altri tempi, in lui il pensiero e l’azione erano facce della stessa medaglia. Aveva un’ottima cultura, ma anche un grande senso dell’avventura, tutte qualità che avrebbero fatto di lui un eccellente narratore. Iniziò la propria carriera lavorando nel cinema fin dalla fine degli anni Trenta, prima come aiuto regista, poi come soggettista e sceneggiatore. Dopo la Seconda Guerra Mondiale intensificò la propria attività e, nel 1949, esordì come regista con il film Vento d’Africa. Nel frattempo, aveva iniziato a occuparsi anche di prosa radiofonica, trasponendo opere di autori sia italiani che stranieri. Forte di queste due esperienze – cinematografica e radiofonica – Majano era pronto a passare alla televisione, quel nuovo media che, a partire dal 1954, avrebbe accompagnato la vita di tutti gli italiani.

Non è un caso che la maggioranza dei soggetti della nascente serialità televisiva, e soprattutto quelli del regista abruzzese, fossero trasposizioni di opere letterarie, che molte persone conobbero per la prima volta in quella forma, non potendo farlo sui libri, spesso per mancanza di istruzione elementare. Leggere, ieri come oggi, era una merce rara. La concezione di sceneggiato televisivo secondo il regista rispecchiava infatti perfettamente le esigenze educative di una RAI che, in quanto servizio pubblico, aveva fra i propri obiettivi quello di elevare culturalmente la popolazione italiana, in quel tempo ancora schiacciata dal peso di un analfabetismo troppo diffuso. Oltre all’ispirazione letteraria che ne caratterizzava i contenuti, sul piano della forma gli sceneggiati di Majano, o almeno quelli più vecchi, avevano un linguaggio molto simile a quello del teatro, condizionato dall’esigenza produttiva di girare in presa diretta, con un ritmo lento, fatto di inquadrature fisse e lontano dalla dinamicità del montaggio cinematografico, e con riprese quasi sempre in interni, che permettevano una migliore illuminazione. Questo comportava che anche la recitazione si adeguasse all’impostazione generale, infatti la scelta del regista ricadeva sempre su interpreti di alto livello e spesso provenienti dal palcoscenico, perciò in grado di reggere la scena per sequenze lunghissime senza interruzioni: gente come Arnoldo Foà, Lea Massari o Enrico Maria Salerno, tanto per nominarne alcuni.

Il volume monografico a lui dedicato (Anton Giulio Majano. Il regista dei due mondi edito da Falsopiano) a firma di Mario Gerosa, giornalista ed esperto di cinema, ripercorre la carriera di questo gigante dello spettacolo italiano, sottolineandone fin dal titolo l’assoluta versatilità che gli permise di muoversi a suo agio sia sul grande che sul piccolo schermo.

Riportiamo qui un estratto dal primo capitolo del libro. (Davide Vivaldi)

 

IL REGISTA DEI DUE MONDI

di Mario Gerosa

Quando parlava del suo modo di confezionare grandi classici televisivi, Anton Giulio Majano adottava colorite metafore gastronomiche. Lui, che per il grande schermo diresse Mastroianni, la Loren, Virna Lisi, Amedeo Nazzari, Walter Chiari, che commissionò a Pier Luigi Pizzi e a Gabriella Pescucci i costumi per i suoi sceneggiati, che fece debuttare in televisione Aldo Fabrizi, che firmò la regia del Cantagiro, che lavorò con Fiorella Mannoia quando faceva la stuntgirl, che fu uno straordinario scopritore di talenti, che scrisse decine di soggetti e che realizzò centinaia di opere, per la radio, il cinema, il teatro e la televisione, che stabilì le regole del teleromanzo, lui che nella Freccia nera ebbe Dante Spinotti come operatore, lui, che spesso fu tacciato di creare dei “polpettoni”, sosteneva di dover apparecchiare una ricchissima messa in scena, un atto che ripeté per decine di volte con estremo rispetto per il pubblico, l’ideale convitato alla sua tavola di regista.

“Ai venti milioni di telespettatori ammannisco uno spettacolo degno di questo nome, diciamo pure un pranzo luculliano, dall’antipasto al Saint Honoré finale. Il pubblico lo sente: e mi ama”.

Ribadì più volte questa pittoresca e sapida visione, che dà conto della sua grande generosità di artista che dispensava a piene mani il suo senso dello spettacolo, il suo desiderio di intrattenere, di debellare anche il più remoto rischio di annoiare. Questo pantagruelico genio televisivo, inventore di sequenze memorabili che hanno riscritto le regole del melodramma, sosteneva che “il pubblico vuole appassionarsi, commuoversi, odia che gli si faccia il solletico: preferisce un menu sostanzioso, con antipasto e dessert, servito su vasellame Upim, al cappuccino offerto in porcellane di Sèvres”.

Gli sceneggiati di Anton Giulio Majano sono abbondanti, ricchi, sostanziosi, non lasciano insoddisfatti. A suo modo Anton Giulio Majano, il cui nome stesso è magnificamente massimalista, rientra nel novero dei grandi narratori ottocenteschi. Aveva la capacità di orchestrare enormi narrazioni, di concertare decine di personaggi, centinaia di comparse, padroneggiando set complicati che comprendevano decine di ambienti, migliaia di metri quadrati. Le sue ricostruzioni erano accurate, rese amorevolmente, con perizia e meticolosità d’altri tempi. Il pubblico adorava queste grandi opere che mobilitavano poderose maestranze oltre a cast stellari con i più bei nomi del teatro e del cinema di allora. E lo apprezzavano anche alcuni maestri, primo fra tutti Luchino Visconti, che non si perdeva uno degli sceneggiati firmati da Majano.

Per i suoi teleromanzi scelse una serie di storie straniere e le adattò allo spirito nostrano, rendendole omogenee tra loro in un linguaggio stilistico nuovo, che tende a italianizzare i romanzi d’origine – siano essi francesi o russi-, riconducendoli tutti a una sintassi semplificata, usando volti di attori italiani che aiutavano il pubblico ad orientarsi nel dramma, ritrovando sempre le stesse fisionomie.

“Antoine Jules de la Nouvelle Vague”, come lo chiamava Nando Gazzolo, fu un grande sperimentatore nella tradizione, e tradusse in un linguaggio inedito alcuni dei più grandi classici di tutti i tempi, appoggiandosi a una schiera di attori di vaglia che ricorrono nei suoi film e nei suoi sceneggiati, definendo una grande famiglia sul set. Proprio grazie a quegli attori, quasi esclusivamente italiani, spesso provenienti dal teatro, Majano riuscì ad addomesticare anche le storie più esotiche, permettendo allo spettatore di trasfigurare luoghi lontani con scenari conosciuti: si guarda la spiaggia di Brighton e si pensa a Forte dei Marmi, si ammira la Scozia e si pensa a Candelo, e viceversa, si pensa di vedere la Francia e invece si osserva Tirrenia, perché comunque, in un modo o nell’altro, prevale un sentire italiano.

Quello di Majano è una sorta di esperanto televisivo, che permette di tradurre in una stessa lingua, con una funzione pedagogica, la poetica di Dostoevskij e di Dreiser, di Stevenson e di Matilde Serao, di Théophile Gautier e di Tommaso Grossi.

Majano in un certo senso creò l’Unione Europea della letteratura, abbattendo i confini culturali tra le varie nazioni, unificando i linguaggi dei vari romanzi. Nei sui sceneggiati scompaiono le unicità e le differenze degli autori e si sviluppa una nuova lingua, una lingua televisiva, che il pubblico imparò presto a conoscere.

Per riuscire in questa difficile impresa in televisione Majano aveva a disposizione un importante bagaglio culturale e una grossa esperienza maturata anche come regista cinematografico.

L’humus in cui si formò è quello sofisticato e avventuroso del cinema degli anni Trenta e Quaranta, il cinema dei telefoni bianchi e quello di cappa e spada, cui si aggiungono poi le esperienze personali di alto ufficiale, che combatté in Africa durante la Seconda guerra mondiale e comandò gli spahis, i leggendari cavalieri libici. Apprese i rudimenti del cinema con Luis Trenker, che considerava il suo maestro, e scrisse vari soggetti e sceneggiature per Mario Costa, Carlo Ludovico Bragaglia, Alessandro Blasetti, Mario Bonnard, Camillo Mastrocinque.

I suoi sceneggiati traspirano quel gusto: ci sono i volti, le pose, le passioni del cinema di quel tempo. Volti e pose ricchi di storia, che fanno parte di un grande mondo antico. E spesso ci sono gli stessi attori di allora, come traghettatori tra un cinema che non c’era più e la nuova avventura televisiva: Edda Soligo, Fosco Giachetti, Lauro Gazzolo, Andrea Checchi, Wanda Capodaglio, Massimo Pianfiorini…

Prima di diventare il re degli sceneggiati, Majano diresse una decina di film. Al cinema decise di puntare su una personale visione del (neo)realismo (La domenica della buona gente), cercando di riportare in auge il romanticismo perduto (Il padrone delle ferriere, La rivale), confrontandosi col noir (L’eterna catena) e misurandosi anche con l’horror (Seddok). Poi passò definitivamente alla televisione, dove trovò la propria dimensione, la propria soddisfazione, negli sceneggiati, un territorio vergine, ancora da colonizzare. In tal modo, per Majano gli sceneggiati rappresentano una personale elaborazione del lutto dell’avventura esotica. Il suo esotismo non lo cercò più su latitudini lontane ma nell’etere, nel televisore, che negli anni Cinquanta e Sessanta era ancora un medium da esplorare. Iniziò così la sua seconda vita, la seconda parte della carriera di questo “regista dei due mondi”, del mondo del cinema e di quello della televisione.

Raccontando le imprese del dottor Manson e di Dick Shelton, Majano placò la sua sete di avventura perduta. Naturalmente, poi, riversò in quelle storie le tensioni drammatiche e le soluzioni spettacolari che avrebbe adottato se avesse potuto realizzare dei kolossal. Majano, definito anche “il Cecil B. De Mille italiano”, pensava in grande, e i suoi lavori sono kolossal in potenza.

Il richiamo dell’immaginario esotico non si manifesta in modo esplicito. Negli sceneggiati di Majano l’esotismo si vede concretamente in pochi casi, per esempio nella Pietra di luna e, indirettamente, per sentito dire, nella Fiera della vanità, dove si parla di avventure coloniali in India. Ma, in senso lato, il fascino per ciò che è diverso e lontano Majano lo trasfonde anche nelle atmosfere incantate dei salotti borghesi dei Barras o dei von Andergast. Sono mondi eccentrici e bizzarri quelli che racconta Majano, coadiuvato da grandi scenografi e costumisti, da Giancarlo Bartolini Salimbeni a Pier Luigi Pizzi, adattandoli al gusto italiano.

Ma non è solo storia, mistero e melodramma la formula dell’arte di Majano. C’è un altro versante importante, che è quello della comunicazione. Da giovane Majano lavorò nei quotidiani e alla radio, e portò spesso un atteggiamento da cronista nei suoi lavori. Terrore sulla città è impostato come un diario giornalistico, Qui Squadra Mobile è pensato come una serie di “cronache di polizia giudiziaria”, Breve gloria di Mister Miffin racconta i dietro le quinte della televisione. L’aggancio all’attualità gli serviva per rendere più autentici i film e gli “sceneggiati contemporanei”, e non di rado si dilettò a mostrare gli strumenti tecnologici della comunicazione. Appena poteva, inquadrava un televisore, un registratore, una telecamera, un telefono, una radio, tutto ciò che fa parte dell’universo dei media.

Il suo più grande atto mediatico riguarda I figli di Medea, un’operazione ardita, che andò ben oltre i confini dello spettacolo e creò un cortocircuito con i canali dell’informazione, facendo pensare a milioni di spettatori di essere testimoni, in diretta, in tempo reale, di un dramma vissuto dalla protagonista dello sceneggiato che stavano guardando. Naturalmente questa sua voglia di sapere, di immagazzinare nozioni, storie e riferimenti comprendeva anche il cinema.

Gli sceneggiati secondo Majano, che pur tradiscono una forte conoscenza del set cinematografico, sono come un teatro esteso e dilatato, un teatro televisivo, dove a volte la narrazione si snoda in modo  sobrio, perché la storia si dipana lentamente, senza colpi di scena, al fine di creare un’atmosfera densa e immersiva, pastosa, una concatenazione di episodi senza soluzione di continuità, una maglia fatta di piccoli eventi che si sorreggono uno con l’altro in un’architettura complessa e ponderata. I lavori di Majano sono sempre molto meditati, diluiti in un tempo sospeso. D’altronde, il senso del tempo per lui era fondamentale, sia come elemento determinante nelle sue narrazioni, sia nella sua vita: dormiva tre o quattro ore a notte e lavorava moltissimo. Come spiegò in un’intervista del 1971 rilasciata a Maurizio Costanzo, “Ho circa duecento ore di spettacolo televisivo andato in onda…altro che brevetto di pilotaggio!”.