La deriva delle parole

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Senza deriva, la deriva va alla deriva. Chiunque sia mai salito su una piccola barca a vela, sa che questo gioco di parole, apparentemente incomprensibile, nasconde una verità fondamentale: senza deriva (il piano longitudinale – in lamiera, legno o materiale sintetico: fisso o mobile – che prolunga in basso la chiglia di alcune imbarcazioni a vela, per contrastare l’azione di scarroccio), la deriva (nome generico di imbarcazioni a vela da diporto, munite di deriva mobile), va alla deriva: galleggia, cioè, abbandonata alle forze dei venti e delle correnti. Scarrocciare, infatti, significa, deviare lateralmente dalla rotta, per l’azione combinata del vento e del moto ondoso concomitante. [Tutti corsivi sono sintetizzati dal Treccani].

Non vanno alla deriva solo le barche. Lo fanno anche le coscienze. E, di conseguenza, le persone. E, con esse, la realtà.

Cosa fa scarrocciare le persone fino a farle finire fuori rotta e perdersi? Le parole: l’arma più potente mai inventata dall’uomo. Una volta avvelenati i pozzi delle coscienze, infatti, il nostro nemico ha vinto. Stravinto, anzi. Molto più che se sterminasse i suoi avversari. Una coscienza critica che finisce sottoterra può sempre essere sostituita da un’altra coscienza critica. Una coscienza critica annichilita, invece, è annichilita per sempre. Non solo: diventa sterile, e non può più generare altre coscienze critiche. In altre parole: se eliminiamo un oppositore, prima o poi un altro oppositore finirà col prendere il suo posto e riprendere là da dove il primo ha lasciato; se, invece, facciamo in modo che le coscienze non siano più in grado di capire a cosa/chi dovrebbero opporsi e perché, nel giro di un paio di generazioni, gli oppositori si estingueranno e i sostenitori di quello che – per parafrasare John Lennon – potremmo chiamare “Power to the Power” avranno, finalmente, campo libero. Il tutto, senza bisogno di stragi, attentati, omicidi, torture, violenze fisiche o psicologiche. Facile, efficace, pulito, definitivo. L’arma perfetta.

Per questo, le parole sono così importanti. Anche se non ce ne rendiamo conto, esse sono molto più dello strumento di cui ci serviamo per dire ciò che pensiamo. Molto più dei mattoncini con i quali componiamo le frasi con cui ci esprimiamo. Sono l’algoritmo che genera i nostri pensieri. Al contrario di ciò che pensiamo, infatti, non sono i pensieri a dar vita alle parole: sono le parole a dar vita ai pensieri.

Nella maggior parte dei casi, però, le parole non nascono dentro di noi. Qualcuno o qualcosa ce le “mette in testa”: genitori, insegnanti, amici, tv, organi di informazione, film, canzoni, libri (sempre meno, purtroppo)… ma, soprattutto, Internet e social media.

Più della quantità (anche quella è importante, naturalmente: più parole conosciamo, maggiore è la nostra capacità di dare forma ai pensieri) conta, ovviamente, il significato. Come per un vino – più di bottiglia ed etichetta – conta il vino stesso, così per la parola – più di segno e suono – conta il senso.  E così come il produttore del vino determina la qualità di ciò che beviamo, allo stesso modo, il produttore di parole determina la qualità di ciò che pensiamo.

Mentre, però, l’attività dei produttori di vino si svolge alla luce del sole – e non è difficile sapere chi abbia prodotto un certo vino (il perché, poi, è addirittura ovvio) – i produttori di parole lavorano nell’ombra e sapere chi abbia creato una certa parola (o insieme di parole) e perché è impresa decisamente più complicata. Questo, anche per il fatto che nessuno sospetta nemmeno che esistano dei produttori di parole. E a chi verrebbe mai in mente di cercare qualcosa o qualcuno che non esiste?

Non solo: i produttori di parole sono molto più scaltri dei produttori di qualunque altro bene. I più scaltri tra gli scaltri, poi, non si limitano a creare neologismi al servizio dei loro interessi ma modificano “il dentro”, non “il fuori” delle parole. Alterano l’anima, cioè, lasciando intatto il corpo. E, visto che l’anima non si vede, nessuno si accorge del cambiamento. E, così, a noi le parole sembrano quelle di sempre. E dato che, istintivamente, siamo portati ad applicare il principio di identità (A=A), non ci rendiamo conto del fatto che, sebbene l’aspetto della parola sia lo stesso, il suo significato è cambiato. La A si scrive e si pronuncia ancora A ma non significa più A. Significa qualcos’altro.

Così come un produttore di vino potrebbe facilmente iniettare del veleno nelle sue bottiglie e avvelenare chiunque lo beva, altrettanto facilmente, un produttore di parole può avvelenare le parole e i pensieri di chiunque le usi. E, dato che non tutti bevono il vino ma tutti parlano, i danni da avvelenamento delle parole sono infinitamente più estesi e devastanti.

Se, a questo, aggiungiamo il fatto che il nostro “lessico fondamentale” (le parole più usate nella nostra lingua) è composto da poco più di 2mila parole (meno dell’1% del nostro patrimonio lessicale: 215mila/270mila “lessemi”) e che, di queste 2mila, quelle che incidono davvero sulla qualità dei nostri pensieri e della nostra vita sono poche decine (“libertà”, “giustizia”, “diritto” e “democrazia” – solo per fare un esempio – hanno un “peso specifico” ben diverso da “pantofole”, “cannuccia”, “accendino” o “stuzzicadenti”), ci rendiamo conto che il lavoro degli avvelenatori di parole non è poi così arduo né così lungo. Si scelgono alcune parole chiave, si inietta in loro il veleno che ne muta il significato e le si rimette in circolazione: le parole avveleneranno i pensieri di chi le usa, e quei pensieri avveleneranno la realtà. Et voilà, le jeux sont fait. Riuscite a immaginare armi più efficaci?

Armi, sì. Perché – buone o cattive che siano – le parole non sono mai disinteressate. Hanno sempre un movente e un fine. Ogni volta che diciamo qualcosa, lo facciamo per una ragione: far sapere una certa cosa o evitare che la si sappia, affermare o negare una verità o una bugia, ottenere qualcosa o impedire che la ottenga il nostro interlocutore, generare, contrastare o annullare sensazioni, conoscenze, convinzioni, intenzioni. Raramente, parliamo per il puro piacere di parlare. Nella stragrande maggioranza dei casi, lo facciamo perché abbiamo individuato un bersaglio e vogliamo centrarlo. Armi, appunto.

La domanda è: se persino noi, “gente comune”, usiamo le parole per raggiungere uno scopo (non sempre moralmente lecito o legittimo), perché non dovrebbe fare altrettanto il Potere, che ha interessi decisamente più grandi dei nostri; interessi che assai di rado – per non dire mai – sono moralmente leciti o legittimi?

Nel 2018, Adam McKay ha scritto e diretto un film che racconta pensiero e azione di Dick Cheney, Segretario della Difesa nell’amministrazione George H.W. Bush [padre] – durante la quale gestì la prima guerra del Golfo; Vice Presidente nei due mandati di George W. Bush [figlio] e tra i principali fautori dell’invasione dell’Iraq. Il film si chiama “Vice – L’uomo nell’ombra”. Titolo fortemente allusivo, se si considera il fatto che la parola inglese “vice” – quando non è seguita da una carica (es. “vice-president” = “vicepresidente”; “vice principal” = “vicepreside”) – significa “vizio” e non “vice” nel senso di “colui che fa le veci di”.

In una scena particolarmente significativa (un convegno sulla riforma fiscale USA al quale partecipa anche Cheney), il relatore apre, dicendo:  «Comincerei con la “tassa di successione”: una tassa difficile da eliminare, perché riguarda solo le proprietà di valore superiore ai due milioni. Ma abbiamo fatto progressi, e il guru del marketing Frank Lantz ci darà una mano». Lantz si avvicina al pulpito e prende la parola: «Spingere la gente comune a sostenere i tagli alle tasse dei più benestanti è sempre stata un’impresa. Abbiamo avuto successo in passato, ma con la “tassa di successione” è molto dura. Tuttavia, forse siamo arrivati a una svolta».

Cambio di scena. Ci troviamo davanti a un focus-group: un campione rappresentativo dell’elettorato americano. «La tassa di successione – spiega Lantz – si applica a chiunque erediti più di due milioni di dollari. A chi di voi questo non piace?». Si alza solo una mano. Allora Lantz ribatte. «Bene. A chi di voi non piacerebbe una cosa chiamata “tassa di morte”?» A questo punto, tutte le mani si alzano. «Invece di “effetto serra” – prosegue il guru – che, siamo d’accordo, fa molta paura, lo chiamiamo “cambiamento climatico”». Ancora una volta, tutte le mani si alzano.

«Così – commenta il narratore – con una delle più grandi macchine mediatiche e politiche mai create prima, Cheney riuscì a soffocare le azioni sull’effetto serra, a tagliare le tasse per i super-ricchi e a smembrare le normative per le grandi corporation».

“Un film!”, si potrebbe obiettare. Certo: un horror, però, che racconta un aspetto tanto inquietante quanto sconosciuto dell’osceno presente in cui viviamo. Siamo proprio sicuri che queste cose succedano solo al di là dell’Oceano?

Gli “smottamenti linguistici” sono antichi quanto le lingue stesse. Ed, entro certi limiti, sono connaturati al loro naturale evolvere. Occorre, però, distinguere tra colpa e dolo. Tra smottamenti involontari, cioè, e intenzionali. Una cosa, infatti, sono i solecismi innocenti, tutt’altra cosa sono quelli criminosi.

Assai presto, infatti, l’Élite del “Power to the Power” [da qui in poi abbreviato in P2P] ha imparato a generare/avvelenare parole, per inquinare i pensieri di opinioni pubbliche ed elettorati. Gran parte della propaganda dei regimi antidemocratici di ogni epoca, del resto, si è fondata su creazione e imposizione di “neo-lingue”, studiate per cancellare/alterare/sostituire valori, ideali, pensieri, desideri, bisogni, e imporre nuove categorie, nuova logica, nuova etica, nuova escatologia. Basti pensare a quanto – in epoca recente – sia Fascismo che Nazismo hanno “investito” in educazione, istruzione e propaganda, reinventando ogni genere di media utile allo scopo: immagini, simbologia, lessico, caratteri grafici e tipografici, scuola, radio, musica, cinematografia, architettura, scultura, pittura, urbanistica e viabilità, edilizia, design…

Quando, per sabotare una democrazia, non è possibile ricorrere a un golpe (cosa non così facile, ad esempio, in Paesi che fanno parte di insiemi politico-istituzionali come l’Unione Europea), certi piccoli “strappi” servono ad abituare, gradualmente, opinioni pubbliche ed elettorati agli strappi, ben più sostanziali e rilevanti, che si intendono realizzare. Una strategia dei “piccoli passi”, che mira a scongiurare il rischio che – soprattutto in certe realtà e durante certe fasi storiche – strappi eccessivi e troppo repentini possano suscitare reazioni tali da compromettere il progetto eversivo.

Non è curioso che, nel nostro Paese, stragi, attentati e omicidi terroristico-politici siano cessati proprio in corrispondenza del crollo della cosiddetta “Prima Repubblica”? Una coincidenza? Esistono coincidenze nelle guerre per il Potere? Non è più ragionevole ipotizzare che – all’inizio degli anni Novanta – le ragioni che avevano “consigliato” il ricorso al terrore si fossero, ormai, esaurite, e che il P2P abbia valutato controproducente proseguire su quella strada, decidendo, così, di chiudere la “fase hard” e inaugurare quella “soft” del progetto di sdemocratizzazione della nostra democrazia?

Nei cambi di sistema soft – meno traumatici e, sebbene più lenti, più efficaci e, soprattutto, più duraturi – è bene che le intenzioni eversive rimangano carsiche. Perché gridare ai quattro venti di voler dare l’assalto al castello, mettendo in allarme le guarnizioni che lo difendono e dando loro il tempo di preparare le contromisure necessarie?

Molto meglio che – un passo alla volta – opinione pubblica ed elettorato finiscano, senza nemmeno accorgersene, col ritrovarsi al di fuori di quella particolare comfort zone che solo i sistemi autenticamente democratici sono in grado di garantire. A quel punto, il cambio di status sarà avvenuto e tornare indietro non sarà più possibile.

Un modus operandi che ricorda quello adottato da certi campeggiatori per eliminare il problema-vespe: si prende una bottiglia di plastica di quelle con il collo a cono, si taglia il collo, si riempie il fondo della bottiglia di una mistura di sostanze zuccherine che attirano le vespe, e si inserisce il collo della bottiglia, a mo’ di imbuto, nella metà inferiore della bottiglia. Le vespe, attirate dalla mistura dolciastra, si fiondano attraversano il collo di bottiglia per tuffarsi nelle leccornie preparate per loro. Una volta, dentro, però, non riescono più a uscire e, così, rimangono intrappolate sul fondo della bottiglia: fine del problema.

Da oltre trent’anni, ormai, sorte analoga tocca a opinione pubblica ed elettorato (o quel poco che ne rimane) italiani. Una neolingua – tanto seducente quanto falsa e truffaldina – intrisa di neologismi e solecismi “avvelenati”, fake news e “narrazioni” fantastiche (totalmente prive, cioè, di qualunque contenuto di realtà), li ha, infatti, attirati e relegati sul fondo di bottiglia di una parvenza di democrazia. La parola “democrazia” si scrive e si pronuncia ancora esattamente come nel 1946: il suo significato, però, è tutt’altro.

Complici di questo devastante “smottamento”, un preoccupante, e sempre più diffuso, analfabetismo di ritorno (meno di un terzo della nostra popolazione capisce la politica e ha gli strumenti intellettivi e conoscitivi per vivere in una società complessa) e lo strapotere anestetizzante e inebetente dei social media. Oltre, naturalmente, al fiancheggiamento imperdonabile di classi dirigenti corrotte, incapaci e totalmente disinteressate a “cosa pubblica” e “bene comune”, le quali hanno contribuito a devastare l’immagine di conquiste nobili e vitali quali “Politica”, “Istituzioni”, “Diritto” e “Democrazia”.

Permettetemi una breve parentesi relativa al ruolo dei social media. L’ultimo rapporto GWI (“The latest trends in social media”) fornisce alcuni numeri su cui vale la pena riflettere: nel 2021, 41 milioni di italiani (67,9% della popolazione) hanno trascorso – in media – quasi due ore al giorno (1h,49min.) sui social. Praticamente, lo stesso tempo di inglesi (1h,47min.) e francesi (1h,46min.), venti minuti in più dei tedeschi (1h,29min.), diciannove in meno degli americani (2h,08min.).

Tanto? Poco? Il giusto? Vediamo: quanti di noi – ogni giorno – dedicano quasi due ore alle relazioni umane? Alla lettura di un saggio, un buon romanzo, uno o più organi di informazione accreditati? All’ascolto di buona musica? Alla visione di un buon film o di uno spettacolo teatrale? A visitare un museo, una mostra, un luogo d’arte? Alla riflessione o alla scrittura? A una bella passeggiata, un giro in bici o all’esercizio fisico?

Torniamo al tema. Dopo quattro dolorosissimi decenni – tentativi di golpe, strategia della tensioneanni di piombo – i sostenitori del P2P hanno cambiato strategia. Dai fatti (di sangue, soprattutto) sono passati alle parole, nella consapevolezza che il loro potere distruttivo può essere superiore a quello di qualunque altro esplosivo. Non diciamo, forse, che ne uccide più la lingua della spada?

Di seguito, un piccolo florilegio di alcune tra le più efficaci “bombe di profondità” lanciate nelle nostre coscienze della neo-lingua eversiva:

Seconda Repubblica” (fino a quando la Costituzione non cambierà, rimaniamo sempre nella Prima, eppure si parla già di Quarta. L’importante è che la Prima si allontani dall’orizzonte delle coscienze, fino a scomparire del tutto. Del resto, a quanti interessano davvero i valori della Prima Repubblica? Un processo di rimozione favorito anche dalla banale contrapposizione tra “vecchio” [il male] e “nuovo” [il bene]. Banale ma sempre vincente, dal momento che nessuno guarda mai alla sostanza delle cose. E, grazie alle fragili dinamiche della psicologia elementare che, ormai, governa il nostro modo di pensare, per la politica va un po’ come va per le auto: chi di noi, oggi, acquisterebbe una Euro0 al posto di una scintillante e decisamente più “performante” Euro6?);  “maggioritario” (ovvero: “chi vince, piglia tutto”, con buona pace della rappresentanza proporzionale, dell’effettiva capacità delle opposizioni di fare opposizione e, dunque, della vitalità stessa della democrazia)“premio di maggioranza” (ieri, oggi e domani sarà sempre una “legge truffa”: quando si entra in cabina elettorale, infatti, tutti i voti hanno lo stesso peso; a fine scrutini, però, i voti di chi ha vinto valgono più di quelli di chi ha perso: eguaglianza costituzionale addio!)“no al finanziamento pubblico dei partiti!” (geniale: così, la politica è ancora di più ostaggio dei privati; “la corruzione sparirà”, salmodiava il mantra dei finti e prezzolati censori. Basta guardarsi intorno per capire come siano andate davvero le cose)“discesa in campo” (a nessuno deve sfuggire il fatto che solo chi si considera più in alto di tutti gli altri – Dio, Superuomo, “Uomo forte”, “Unto del Signore”, “Prescelto”, “Elevato”… – può scendere tra i “comuni mortali”, per illuminarli e guidarli, dall’alto della sua auto-attribuita infallibilità)“Premier” (da trent’anni, ormai, la parola Premier ha, dolosamente, sostituito la formula “Presidente del Consiglio”. Si trattava di cominciare – surrettiziamente – ad abituare opinione pubblica ed elettorato all’idea di un governo forte, il cui capo non è più un “primum inter pares” ma un “super pares”, al di sopra di tutti. Operata questa sostituzione, il passaggio al Presidenzialismo appare a tutti “naturale” e non – qual è in realtà – contrario a lettera e spirito della nostra Costituzione. In questo nuovo “clima”, semmai, è proprio il fatto di opporsi all’idea della “premiership” ad apparire contrario alla natura delle cose)governabilità (parolina magica: si scrive governabilità ma si legge docilità: docilità del “popolo” di lasciarsi guidare – cioè comandare – da chi governa. Una condizione passiva, non attiva, tipica dei sudditi e non dei cittadini-elettori di una moderna democrazia parlamentare. E che nessuno disturbi il conducente. Come canterebbe Bennato: “è il primo giorno, però, domani ti abituerai e ti sembrerà una cosa normale: fare la fila per tre, risponder sempre di sì e comportarti da persona civile”)“stabilità” (genialata – a Roma diremmo “paraculata” – simile a “governabilità”. La stabilità, infatti, è la condizione ideale per chi detiene il potere, non certo per chi lo subisce. Favorisce i governanti, non i governati. Si scrive “stabilità” ma si legge “immobilità”: chi conquista il potere, infatti, non ha alcuna intenzione di perderlo. Chi predica “stabilità”, dunque, non intende affatto tranquillizzare gli elettori. Intende rassicurare gli eletti: garantire che il Potere resterà Potere. «Hic manebimus optime»; Una sola Camera e meno parlamentari (la bufala del dimezzamento di tempi e costi della politica nasconde la volontà di trasformare – definitivamente – la democrazia parlamentare in democrazia dell’esecutivo, e spianare la strada al Presidenzialismo. Questo senza contare il fatto che corrompere 300 parlamentari costa molto meno – sia in termini di tempo che di denaro – rispetto a corromperne 1.000). Sempre in prospettiva presidenzialista, “Nazione” («in generale, una “comunità di nascita”. Il termine latino “natio” deriva infatti, attraverso il suo participio “natus”, dal verbo “nascor” e ribadisce la contiguità semantica tra “nazionalità” e “appartenenza di sangue”») ha sostituito “Stato” («forma di organizzazione del potere politico, che esercita sovranità su territorio e cittadini» [i virgolettati sono tratti da “Enciclopedia del pensiero politico”, Esposito-Galli, Laterza, 2005]. Una differenza di sostanza e non di forma, che mira a rimettere al centro della dialettica politica l’opposizione “noi” (italiani = belli, bravi, buoni) “loro” (stranieri = brutti, sporchi, cattivi). Opposizione che è sempre stata alla base di qualunque regime “nazionalista”, appunto. Ed è esattamente lì che stiamo andando: basta unire i puntini che legano tutte queste parole avvelenate per capirlo. Se “per due punti diversi passa una e una sola retta”, è assolutamente certo che, quando – come in questo caso – i punti diversi sono ben più di due, la retta che passa tra loro è, incontrovertibilmente, una).

E, così, “smottamento linguistico” dopo “smottamento linguistico”, il P2P è riuscito trasformare la Repubblica democratica parlamentare – figlia della Costituzione del ’46 – in una “esecutivo-crazia”, che è ormai sul punto di trasformarsi in Presidenzialismo. Presidenzialismo che – visto che, da noi, i sistemi di “check and balance” che dovrebbero consentire a una democrazia di essere veramente tale, non funzionano (non hanno funzionato in tempi infinitamente più nobili di questi, figurarsi se possono funzionare in questi) – sarà, di fatto, un governo forte nel quale le figure di Capo dello Stato e Capo del Governo (la prima garante della costituzionalità dell’azione della seconda) saranno incarnate da un’unica persona, la cui azione – in assenza di contro-poteri davvero degni di questo nome – sarà assai difficile limitare, sia nell’operato politico che nel tempo.

Tutto questo, sempre ammesso che la diga-Europa non cominci a dare segni di cedimento. Se così dovesse essere, infatti, tentativi di golpe come l’assalto trumpista a Capitol Hill o quello bolsonarista ai palazzi del potere di Brasilia di certo non fallirebbero.

Morale? Grazie alle colpe dei Padri (la Prima Repubblica non era certo esente da peccato: tutt’altro) e all’ingegno malefico di molti (indegni) figli, la nostra Democrazia è una stella spenta. Da un pezzo, ormai. Guardando su, ci sembra ancora accesa, ma è un’illusione. Presto, la sua luce smetterà di arrivare e ci ritroveremo al buio. Impossibile dire se e quando la luce di una nuova stella tornerà ad illuminare le nostre coscienze e la nostra strada.