Il Parco degli Acquedotti.
Una storia di geografia umana

Cristiano Tancredi, collaboratore dell’Associazione Volontari Parco Acquedotti, racconta per il Festival delle Geografie l’operazione di tutela e recupero del famoso parco romano nell’esperienza della geografia umana.
Gli uomini, da sempre, traggono dalla natura ciò che è loro indispensabile per il nutrimento, per la produzione di utensili e attrezzature, per la costruzione di ripari e case. Con la loro azione modificano profondamente interi ecosistemi, talvolta in maniera definitiva. Siamo nel campo di studio della geografia umana, una disciplina con un oggetto di ricerca molto ampio, che si sofferma sul funzionamento delle società, sulla distribuzione degli uomini sulla Terra, sulle loro distanze e sulla la maniera in cui essi vivono e si rapportano all’ambiente.
Ma non solo. Gli uomini, lo sappiamo, non traggono dalla natura solo utensili, attrezzature, e cibo. Il loro rapporto con l’ambiente circostante è molto più complesso e profondo. La geografia umana non si ferma a una visione meccanicistica dell’organizzazione spaziale delle società. Gli uomini s’interrogano sul senso da dare al loro passaggio sulla Terra e, soprattutto, sono sempre alla ricerca di significati, di autenticità, di emozioni, di cultura e di bellezza. Un nutrimento, quest’ultimo, non meno indispensabile per l’uomo di cibo ed acqua.
Tra i molti gioielli nascosti, o poco conosciuti, di Roma, il Parco degli Acquedotti è sicuramente uno dei più sorprendenti. Si allunga a perdita d’occhio nel quadrante sud/est di Roma, ha una estensione di circa 250 ettari ed è delimitato dalle vie Lemonia, Capannelle, Quadraro e Appia Nuova.
Si tratta, senza esagerazioni, di un luogo incantato. Ogni volta che vi metto piede vengo rapito dalla sua bellezza, che si dischiude davanti ai miei occhi quasi fosse perennemente la mia prima visita.
La ricchezza di resti archeologici di età romana, medioevale e rinascimentale, così come il panorama che spazia sull’antico apparato vulcanico dei Castelli Romani, ne fanno un sito unico al mondo.
Il suo territorio è percorso da ben sette Acquedotti, sei di età romana (degli undici che afferivano l’acqua a Roma) ed uno rinascimentale. Lo stato di conservazione di alcuni di essi lascia a bocca aperta, ed ogni volta che mi ritrovo lì, magari ad osservare il sole adagiarsi dietro uno di quegli imponenti colonnati, fatico davvero a capire come mai il parco non brulichi di turisti come il Colosseo o i Fori Romani.
Passeggiare nel Parco degli Acquedotti è una scoperta continua: vi sono resti sepolcrali, principalmente a camera, ed una importante Villa, risalente al primo secolo d.C. (Villa delle Vignacce). Vi è, inoltre, anche un tratto della Antica Via Latina.
Uno scenario ricco di Storia ed anche di emozioni: il rumore del vento che accarezza le foglie, il gracidare delle rane, l’abbaiare dei cani, il profumo dei fiori, il treno che corre parallelo alle gloriose ed antiche rovine di Acquedotti, il brusio, il calpestio. Non si possono percorrere i sentieri di un parco senza odorarlo, senza sentirlo, senza viverlo.
Per la geografia umana questa connessione sensoriale è basilare. Il bagaglio culturale di ognuno di noi è parte essenziale della nostra capacità di interpretare la natura che ci circonda: in essa esistiamo come individui singoli e, al contempo, come esseri in relazione con la natura stessa.
Le interazioni tra l’uomo e l’ambiente e le conseguenti emozioni che tali contatti generano: anche questa è la geografia. Ebbene sì, ci stiamo riferendo a quella materia odiata da tutti fin dalla scuola primaria ed oggi sempre meno considerata dai programmi scolastici. Eppure, tutte le nostre esperienze sono geolocalizzate, non esistono senza lo spazio. È soltanto attraverso di esso che prediamo coscienza di noi stessi, che la nostra identità si forma, si struttura. Noi siamo anche le strade che percorriamo.
E queste strade sono state e sempre saranno anche fonte di ispirazione artistica e culturale.
Non sorprende allora scoprire che, nei secoli trascorsi, il Parco è stato meta agognata di artisti e scrittori. Goethe nella sua pubblicazione del Viaggio in Italia (1793) definisce l’imponente Acquedotto Claudio come una “serie infinita di archi di trionfo”. Altri scrittori, per testimoniare la loro presenza, hanno condotto con loro rinomati pittori per immortalare al meglio lo spettacolo che si presentava ai loro occhi, troppo difficile da esprimere a parole.
Ma la ricchezza del Parco, un po’ come la ricchezza di Roma, è un tesoro fragile. Successivamente alla rottura degli Acquedotti ed al loro abbandono, il sito perse il suo carattere “artistico” e divenne latifondo di famiglie potenti che, per coltivare le terre e custodire gli armenti, ‘importarono’ genti (falcidiate nel luogo da malaria e povertà) principalmente dall’Abruzzo e dal Molise. Nel Novecento, il Parco versava ormai in stato di totale abbandono. L’area era frequentata da spacciatori, meretrici, delinquenti comuni e non era possibile attraversarla, nemmeno di giorno, in sicurezza. Barriere vegetali e di rifiuti, carcasse di autovetture e ciclomotori e resti di furti ne impedivano il passaggio.
“E oggi?” mi domando allora, risalendo l’ennesimo crinale erboso da cui posso osservare le distanti luci dei Castelli Romani, che quasi sembrano dipinte lungo l’orizzonte. “Oggi come sta questo posto magico, pieno di contraddizioni?”.
Il Parco degli Acquedotti oggi vive principalmente grazie al lavoro dei suoi volontari, che, con un impegno quotidiano cominciato nel 2008, sono riusciti pezzo dopo pezzo a riportarlo al suo splendore. Cura del verde, bonifiche di interi tratti ammalorati, restauro di fontane, panchine e ruscelli, piantumazione di nuovi alberi: i volontari del Parco hanno fatto letteralmente rivivere questo posto. Il loro lavoro, mai decantato e talvolta nemmeno notato dal resto della città, è stato per il parco una vera e propria boccata di ossigeno.
Oggi è un luogo nuovamente accessibile, godibile, curato. Ed il Parco degli Acquedotti, nella sua ritrovata bellezza, si può apprezzare più che mai. Allora mi basta sedermi su una delle sue panchine, verso il tramonto, e ascoltare la brezza che scende dai Colli Albani ogni sera. A quel punto non devo far altro che lasciare che il vento mi racconti i secoli ed i millenni di storia di cui quegli archi, ancora fieramente in piedi, proprio lì davanti a me, sono stati testimoni.