Jean-Michel Basquiat al MUDEC. Tutte le lingue dell’artista “analfabeta”
Più di cento opere di Jean-Michel Basquiat (New York, 1960-1988) tra dipinti, disegni, serigrafie, foto e oggetti provenienti prevalentemente dalla collezione di Yosef Mugrabi sono visibili fino al 26 febbraio 2017 presso il Museo delle Culture a Milano in occasione della mostra curata da Jeffrey Deitch e Gianni Mercurio.
Gli spazi che ospitano l’esposizione, posti all’interno di un significativo monumento di archeologia industriale nell’area di un’ex fabbrica, ben si addicono a un artista che ha creduto, sperimentandolo dolorosamente sulla propria pelle, nel dialogo attivo e costruttivo tra culture diverse.
Esprimendosi con un linguaggio al tempo stesso personale e universale l’artista newyorkese ha offerto un contributo fondamentale all’arte contemporanea, in un momento di forti contraddizioni, mettendo in comunicazione tra loro una pluralità di espressioni e valori per attraversare ed abbattere, attraverso la creatività, le barriere costruite dall’uomo verso chi è diverso da sé.
Jeffrey Deitch, che insieme a Gianni Mercurio ha curato la mostra, sottolinea che “se si vuole comprendere il notevole fervore artistico che animava New York tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni anni Ottanta, l’opera di Jean-Michel Basquiat porta direttamente al centro del discorso. Egli costruisce la sua arte sulle radicali innovazioni dei geni artistici, letterari e musicali della generazione precedente attivi a New York e si impegna in un dinamico scambio con i suoi contemporanei. La sua opera coglie la convergenza creativa che si verificò durante quel periodo in cui artisti, musicisti e scrittori dialogavano fra loro”.
Gianni Mercurio definisce quella di Basquiat “una pittura drammatica, alimentata dall’orgoglio del proprio essere nero, dall’affermazione e dalla difesa dei valori etici e morali che si possono riscontare nella cultura degli afro-americani. L’energia e la determinazione con cui egli ha affrontato questi temi sia sul piano dei contenuti sia su quello del linguaggio fanno sì che la sua sia un’arte epica, che ha aperto la strada agli artisti neri che dono venuti dopo di lui”.
L’esposizione si articola in una serie di luoghi che hanno segnato le tappe del percorso artistico così cruciale per gli artisti della sua generazione, a partire dalle poesie visive realizzate in strada, per proseguire con le opere ideate in studio per collezionisti, gallerie ed esposizioni, fino a giungere alle Collaboration Paitings con Andy Warhol.
Amava definirsi analphabet artist ma Jean-Michel Basquiat era ben consapevole del proprio talento e delle abilità che lo facevano eccellere sia nell’uso del linguaggio verbale, padroneggiato indifferentemente in inglese e spagnolo, sia nell’arte visiva, esercitata già da piccolo disegnando cartoni animati visti in televisione e alimentata dalla frequentazione dei musei della sua città insieme alla madre.
Fin da studente della City as School di Manhattan intraprende con il compagno di classe Al Diaz, graffitista, operazioni a metà strada tra l’arte concettuale e la poesia visiva.
Muniti di bomboletta spray e pennarelli indelebili i due affidano ai muri o ai vagoni della metropolitana del quartiere messaggi brevi e sincopati, elaborando in alcuni casi veri e propri aforismi.
Filosofeggiano su questioni escatologico-esistenziali, politiche e sociali usando metafore desunte da testi sacri, arcaici e letterari sotto il nome d’arte SAMO (derivante con sottile ironia dalla contrazione di SAMe Old shit), corredato della sigla di copyright, in un flusso di parole opportunamente scelte che che va ben al di là della riconoscibilità della tag in cui si identifica comunemente uno street artist newyorkese del tempo.
Ma il percorso artistico di Jean Michel va ben oltre queste prime esperienze metropolitane.
Abbandonata la scuola diventa insegnante di se stesso e, attingendo sapientemente a fonti iconografiche diverse, apprese dalla strada e dai dipinti esposti nei musei di tutto il mondo, sperimenta varie forme di primitivismi senza trascurare l’art brut.
Lavorando instancabilmente approda al mondo dell’arte e diventa subito un mito moderno.
Sono solo sette gli anni della sua intensa attività artistica, alimentata da una creatività inarrestabile a cui si mescolano esperienze di tipo televisivo, attoriale e musicale all’interno di una noise band con cui si esibisce suonando il clarinetto e un rudimentale sintetizzatore in locali del downtown. Si tratta dei Gray, gruppo sperimentale da lui fondato traendo spunto forse dal nome dell’autore del manuale di anatomia che da piccolo aveva letto durante una lunga degenza ospedaliera o forse dal colore grigio, ottenuto mescolando bianco e nero.
Vissuti intimi e personali, realtà quotidiana e criticità sociali prendono forma, stratificandosi, in una pittura multimaterica che si compone di immagini su ampie campire di colore steso con lunghi pennelli a setole spesse e di parole-chiave che vengono tracciate con segni grafici essenziali e talvolta parzialmente coperte. Questa operazione fa sì che esse diventino portatrici di messaggi criptici volutamente nascosti per dare loro maggior risalto.
Percorso da un vitalismo vulcanico e consapevole della propria popolarità, cede gradualmente sotto il peso della sua fragilità emotiva che lo tradisce nel momento in cui, raggiunto l’apice del successo di pubblico, è ormai pronto per intraprendere la difficile scalata verso il riconoscimento ufficiale da parte di chi occupa i vertici più alti del mondo dell’Arte.
E perché questo avvenga è necessario il rispetto della propria identità, che affonda le radici nella cultura afro-caraibico-americana.
Ma non si saprà mai se, raggiunta quella meta, avrebbe continuato a essere se stesso o sarebbe stato fagocitato dal mercato dell’arte: a soli ventisette anni una tragica morte pone fine a tutti i suoi progetti, nell’appartamento di Great Jones Street, pieno di libri su qualsiasi argomento, in linea con il sincretismo che ha caratterizzato la sua produzione artistica e la sua breve ma intensa esistenza.