Diario di un astemio alcolista

“Barleycorn” è una sorta di nomignolo con cui in Nord America vengono chiamati gli alcolici prodotti dall’orzo, come birra e whiskey. Nel 1913, Jack London, scrisse una sua drammatica e intensa autobiografia romanzata, per ammonire i lettori a proposito di cosa possa davvero significare la dipendenza alcoolica, e di cosa possa implicare. E decise di chiamare questa sua autobiografia romanzata proprio John Barleycorn. È una allegrissima, tragica e disperatamente vitale autobiografia alcolica. La riscrittura in chiave etilistica di “Martin Eden”. A bordo della sua Razzle Dazzle il giovane re dei razziatori di ostriche attracca nei saloon dell’angiporto di Oakland per bere e offrire da bere dimostrando la propria resistenza e generosità per essere accettato in quella consorteria di “veri uomini”. Perché la tesi è che l’alcol “naturalmente” non può piacere e che si beve solo per dovere sociale, per frequentare i saloon e le incredibili persone che vi si conoscono. Molto meglio le caramelle d’orzo che il giovanissimo razziatore mangia di nascosto, come di nascosto legge e frequenta le biblioteche… E che finché si fa una vita “vera” le bevute non sono poi un gran problema, a parte i soldi e le risse; il vero problema nasce quando al lavoro fisico si sostituisce quello intellettuale. Allora sì che l’alcol diventa tragedia. Accanto alla lucida e coraggiosa denuncia che lo anima, vi è il racconto vibrante di una vita vera, vissuta all’insegna dell’avventura e della sfida con la natura, contro i limiti del corpo e della mente. Una vita randagia eccezionale, dalle scorribande nella baia di Oakland con i «pirati» di ostriche, alle traversate artiche per la caccia alle foche, dalle rotte polverose dei cercatori d’oro del Klondike a quelle oceaniche verso il Giappone. Senza dimenticare la tenace disciplina che si autoimporrà dopo il successo: mille parole al giorno da produrre prima di concedersi un bicchiere. «Martin Eden ero io», dice a un certo punto London, ricordando uno dei suoi più celebri personaggi.
Fausto Cosentino, autore teatrale di successo, ne ha elaborato una sintesi che è stata letta ed interpretata da Vittorio Ristagno durante VinComics a Levanto, la rassegna culturale dedicata al rapporto tra i vini e i fumetti. MEMO ne pubblica un estratto. Decisamente alcolico. Buona lettura.
di Jack London
Mi successe tutto un giorno di elezioni. Era un caldo pomeriggio californiano, e a cavallo io avevo traversato la Valle della Luna per andare dalla fattoria al piccolo villaggio a votare Sì oppure No a un sacco di emendamenti proposti alla Costituzione della California. Data la calura della giornata, mi feci diverse bevute prima di dare il mio voto e diverse altre dopo aver votato. Poi, sempre a cavallo, avevo ripreso la mia strada attraverso i vigneti e i pascoli della fattoria arrivando a casa giusto in tempo per bere ancora e cenare.
«Come hai votato sull’emendamento al suffragio?» chiese mia moglie Charmian. «Ho votato a favore»
E perché hai votato a favore?» chiese.
«Se le donne ottengono il voto, votano per il proibizionismo» dissi. «Saranno le mogli, le sorelle, le madri, e loro soltanto, che pianteranno i chiodi nella bara di John Barleycorn…»
«Ma io credevo che tu fossi amico di John Barleycorn» intervenne Charmian.
«Sono amico. Ero amico. Non sono più amico. Non lo sono mai stato. Ti dà vista chiara, e sogni torbidi. E’ un assassino con la mano rossa e massacra la gioventù».
Charmian mi guardava, e si domandava – lo sapevo – dove avessi pescato questa roba. Continuai a parlare. L’ho già detto, ero su di giri, illuminato dalla luce bianca e chiara dell’alcool. John Barleycorn subiva un accesso di sincerità. E io ero il suo portavoce. E’ così che John Barleycorn gioca e alletta e infila brani di porpora nella monotonia dei tuoi giorni.
Non ero nato con alcuna predisposizione chimica, organica all’alcool. L’alcool era un gusto acquisito. Penosamente acquisito. Neanche ora me ne piaceva il gusto. Lo bevevo solo perché mi teneva su. E dai cinque ai venticinque anni non mi aveva mai tenuto su. Eppure eccomi qui, alla fine, posseduto dal desiderio del bevitore.
Come temperamento io sono uomo di cuore buono e lieto. Eppure quando cammino con John Barleycorn, soffro tutta la dannazione del pessimismo intellettuale. Però, John Barleycorn deve avere il suo dovuto. Dice la verità. Ecco la maledizione. «Perché non scrivi queste cose a benefizio dei giovani e delle giovani di domani?» chiese Charmian.
«I ‘Ricordi di un alcolista’», dissi con scherno. O meglio: lo disse John Barleycorn; infatti stava seduto con me, al tavolo, a sentire questa chiacchierata gradevole e filantropica. E’ uno dei trucchi di John Barleycorn: volgere il sorriso a scherno senza neanche darti un attimo di avviso.
Avevo cinque anni la prima volta che mi ubriacai. Era una giornata calda, e mio padre arava nel campo. Mi avevano mandato da casa – un mezzo miglio – a portargli un secchio di birra.
«E stai attento a non versarlo», fu l’ordine al mio partire.
Era, me lo rammento, un secchio da strutto, di bordo molto largo e senza coperchio. Al mio andare, la birra traboccava e mi bagnava le gambe. La birra era una cosa molto preziosa. Io riflettevo. A ripensarci doveva essere meravigliosamente buona. Altrimenti, perché mi avrebbero sempre proibito di berla, in casa?
In ogni modo, il secchio era troppo colmo, io me lo sbattevo sulle gambe e lo versavo per terra. Perché sprecarla? E nessuno avrebbe mai saputo se l’avevo bevuta o versata. Ero così piccolo che, per maneggiare il secchio, mi misi a sedere e me lo tirai in grembo. Dapprima sorseggiai la spuma. Rimasi deluso. Evidentemente la preziosità non stava nella spuma. E poi, il gusto non era poi troppo buono. Poi ricordai che i grandi, prima di bere, spazzavano via la spuma. Ci tuffai la faccia e succhiai il liquido compatto, sottostante. Non era affatto buona. Eppure bevvi ancora. I grandi sapevano il fatto loro. Considerata la mia poca mole e la grandezza del secchio che mi tenevo in grembo, e il fatto che bevevo trattenendo il fiato con la faccia sepolta fino alle orecchie nella spuma, era piuttosto difficile valutare quanta ne bevessi. Non solo, la mandavo giù come se fosse medicina, con una fretta nauseata.
Ebbi un brivido, quando ripresi il cammino, e intanto pensavo che il sapore buono sarebbe venuto dopo. Provai diverse altre volte, durante quel lungo mezzo miglio. Poi, sbalordito dalla quantità di birra che mancava, e rammentando che si poteva far schiumare daccapo, presi uno stecco e l’agitai fino a che la schiuma arrivò all’orlo. E mio padre non si accorse di nulla. Vuotò il secchio con la vasta sete dell’aratore accaldato, mi rese il secchio e ricominciò ad arare. Io faticavo a camminare accanto ai cavalli. Rammento d’avere inciampato nei loro zoccoli. Ricordo anche, vagamente, che mio padre mi portò in braccio fino agli alberi, sul ciglio del prato, mentre tutto il mondo mi ruotava attorno, e io avvertivo una nausea mortale. Dormii tutto il pomeriggio, sotto gli alberi, e quando mio padre mi svegliò al tramonto, fu un ragazzino davvero schifato quello che si alzò e stancamente si trascinò fino a casa. Ero esausto, oppresso dal peso delle mie membra, e avevo nello stomaco come una vibrazione d’arpa che mi arrivava alla gola e al cervello. La mia era la condizione di chi ha combattuto con il veleno. E, in verità, ero rimasto avvelenato.
Nelle settimane e nei mesi che seguirono mi tenni lontano dalla birra come mi tenevo lontano dalla stufa dopo che mi ci ero scottato.
Ma le circostanze decisero altrimenti. A ogni mia svolta del mondo in cui vivevo c’era John Barleycorn, che ammiccava. Non c’era verso di sfuggirgli. Tutte le strade portavano da lui.
Il mio successivo scontro con John Barleycorn avvenne all’età di sette anni.
Una domenica mattina mi trovavo, non so come o perché, alla fattoria dei Morrisey. C’erano parecchi giovani convenuti dalle fattorie vicine.
All’improvviso si udirono strilli di ragazze e grida di: «Botte»! Gente che correva, uomini che si precipitavano fuor della cucina. Due giganti, con gli occhi accesi, la barba grigiastra, si serravano l’un con l’altro con le braccia. Uno era Matt, il Nero, che, lo dicevano tutti, ai suoi tempi aveva ammazzato due uomini. Forse avrei visto quella cosa meravigliosa: un uomo morto. O, almeno, avrei visto una rissa fra uomini. Fu grande la disillusione. Matt il Nero e Tom Morrisey si limitavano a tenersi l’uno con l’altro e alzavano i piedi, dentro quelle goffe scarpacce, in una specie di danza grottesca di elefanti. Erano troppo ubriachi per darsele.
E io, bambinetto di sette anni, il cuore in bocca, il corpo tremante e teso come quello di un cerbiatto quando sta per scappare, stavo a guardare Matt il Nero e Tom Morrisey spaparanzati sul tavolo, che si abbracciavano e piangevano di affetto.
Poco dopo qualcuno propose di andare in un grosso “rancho” italiano dove si poteva ballare. Subito formarono le coppie, dama e cavaliere, e partirono sulla strada sabbiosa. E badiamo bene, la fidanzata ce l’avevo anch’io. Era una ragazzina irlandese della stessa mia età. Ma eravamo più giovani di tutti, noi due, e camminavamo tenendoci per mano, e qualche volta, l’abbracciavo alla vita. Ero molto fiero, in quella chiara mattina di domenica. Ce l’avevo anch’io la mia ragazza. Ero un ometto.
Al “rancho” italiano erano tutti scapoli. La nostra visita fu salutata con gioia. Versarono per tutti vino rosso nei bicchieri grandi, e i giovani ballarono e bevvero con le ragazze, seguendo gli accordi di una fisarmonica. Per me quella era una musica divina. Non avevo mai sentito una cosa tanto bella.
Quando i padroni di casa italiani mi avevano, genericamente, offerto del vino, io avevo detto di no. L’esperienza della birra mi bastava.
Purtroppo, un giovanotto italiano di nome Piero, anima maliziosa, vedendomi seduto tutto solo, seguendo il capriccio del momento, riempì a mezzo un bicchiere di vino e me lo porse. Stava seduto a tavola di fronte a me. Lo rifiutai, lui si fece severo in volto, e insisté a offrirmi il vino. E allora cadde su di me il terrore, un terrore che ora debbo spiegare.
Mia madre aveva certe sue teorie. Più volte avevo sentito affermare dalle sue labbra che se uno offende un italiano, sia pure leggermente e senza intenzione, quello risponde con una coltellata nella schiena.
E questo italiano, Piero, aveva quei tremendi occhi neri di cui mi aveva parlato mia madre. In ogni modo i suoi occhi neri erano anche lucidi e diabolici. Erano occhi misteriosi, sconosciuti. In essi io mi figuravo la morte improvvisa, e rifiutai il vino di malavoglia. L’espressione nei suoi occhi cambiò. Si fecero severi e imperiosi, mentre spingeva verso di me il bicchiere pieno.
Che cosa potevo fare? Non ho mai conosciuto come allora la paura della morte. Mi portai il bicchiere alle labbra, e gli occhi di Piero si placarono. Soltanto allora capii che non mi avrebbe ucciso. Questo fu un sollievo. Ma non fu un sollievo il vino. Era scadente, nuovo, amaro, e agro, fatto con gli scarti dei vigneti e delle pergole, e aveva un sapore anche peggiore della birra.
C’è un solo modo per prendere una medicina: mandarla giù. E in quel modo io presi il vino. Buttai la testa all’indietro e me lo ingozzai. Dovetti mandarne giù un’altra sorsata, e finire il veleno, perché veleno era per i miei tessuti e le mie membrane di bambino.
Riempì a metà un secondo bicchiere e lo spinse sul tavolo incontro a me. Gelato di paura, disperato della sorte che mi toccava, mandai giù il secondo bicchiere come il primo. Ma a Piero questo parve troppo. Doveva condividere il prodigio infantile che aveva scoperto. Chiamò Domenico, un italiano coi baffi, a vedere lo spettacolo. Stavolta me ne dettero un bicchiere pieno. Per vivere uno fa qualsiasi cosa. Mi feci forza, dominai la nausea che mi saliva alla gola, e buttai giù.
Domenico non aveva mai visto un fanciullo di calibro talmente eroico. Due volte colmò il bicchiere, ogni volta fino all’orlo, e lo vide scomparire nella mia gola. Stavolta la mia bravura stava attraendo altra attenzione. Braccianti italiani di mezza età, vecchi contadini che neanche parlavano l’inglese, mi circondavano. Erano scuri e selvatici, portavano camicie e fusciacche rosse; e sapevo che avevano addosso il coltello; e facevano cerchio attorno a me come un branco di pirati. E Piero e Domenico volevano che io dessi spettacolo. Quanto bevvi non lo so. Per quanto cattivo fosse il vino, una coltellata nella schiena era peggio, e io dovevo sopravvivere ad ogni costo.
La paura era troppa, addirittura, e per questo non mi si rivoltò lo stomaco. E non è certo per darmi delle arie che adesso affermo che costoro non avevano mai visto nulla di simile.
Venne l’ora di andare. Mi trovai sulla porta, accanto alla mia ragazzina. Lei non aveva avuto la mia esperienza, dunque non era ubriaca. Era affascinata dalla poca voglia che mostravano i giovanotti di seguire le ragazze, e cominciò a far loro il verso. A me questo parve subito molto bello, e così anch’io cominciai a fingere di barcollare. Ma lei non aveva vino in corpo, mentre a me quel movimento fece salire i fumi al capo. Vidi un ragazzo che, dopo aver azzardato una decina di passi, si fece sul ciglio della strada, e dopo aver scrutato gravemente il fossetto, ma molto gravemente, ci cadde dentro. A me parve eccezionalmente buffo. Barcollai fin sull’orlo del fossetto, con la netta intenzione di fermarmi lì. Quando tornai in me ero nel fossetto e diverse ragazze mi stavano tirando fuori. Non avevo voglia di recitare oltre la parte dell’ubriaco. Non avevo più voglia di scherzare. Gli occhi cominciavano a obnubilarsi, la bocca ad aprirsi in cerca d’aria. Tenendomi per mano una ragazza mi guidò dall’altro lato, ma avevo le gambe di piombo. Stavo soffocando, avevo bisogno d’aria. Muovermi mi dava l’angoscia. Mi faceva boccheggiare anche di più. Le ragazze insistevano a farmi camminare, ed erano quattro miglia per arrivare a casa. Quattro miglia! Ricordo che i miei occhi videro un ponticello che superava la strada, distante un’enormità. Di fatto non era neanche a cento passi. Quando lo raggiunsi, mi lasciai andare e giacqui supino anfanando. Le ragazze tentarono di sollevarmi, ma non c’era nulla da fare, soffocavo. E poi non seppi più niente.
Quando rinvenni era buio.
Per quattro miglia mi avevano trasportato, fuor di coscienza, e messo a letto. Ero un bambino malato. Di continuo ricadevo nella follia del delirio. Urlavo, m’agitavo, mi dibattevo. La mia sofferenza era incredibile. Uscendo da questo delirio, sentivo la voce di mia madre: «Il cervello del bambino. Perderà la ragione». E riaffondando nel delirio, mi portavo dietro quest’idea, e mi chiudevano in manicomio, e mi picchiavano i custodi, e mi circondavano altri pazzi urlanti.
E’ incredibile che quella notte non mi scoppiasse il cuore o il cervello.
Rimasi malato per diversi giorni, e non ebbi più bisogno delle ingiunzioni di mia madre per evitare John Barleycorn in avvenire.
E tuttavia vorrei chiarire che questa esperienza, per terribile che fosse, non poteva alla lunga impedirmi di fare amicizia intima con John Barleycorn.
Il mio odio per l’alcool era puramente fisiologico.
Questa maledetta roba non mi piaceva. Questo odio fisiologico per l’alcool non l’ho mai superato.
Ma l’ho vinto.

Fausto Cosentino
Fino a oggi ho continuato a vincerlo, ogni volta che bevo. Ma gli uomini non bevono per gli effetti che l’alcool produce sul corpo. Quel che bevono serve per gli effetti che avrà sul cervello; e se poi deve proprio passare attraverso il corpo, tanto peggio per il corpo. (…)