Valentina Petri e l’arte di raccontare la scuola.

Paolo l’hai letto il libro di Valentina Petri? La segui la sua pagina su fb? Alla quinta volta che me la segnalano vado a vedere chi è e di cosa si tratta. Scopro così una giovane e sorridente professoressa di italiano che insegna lettere all’Istituto Professionale Lombardi di Vercelli. Una che crede in quello che fa e che con occhi aperti, disincantati  e divertiti racconta la scuola così com’è, senza dimenticare nemmeno per un secondo le mille contraddizioni che la abitano e il ruolo fondamentale che esercita all’interno del processo educativo di crescita di ogni singolo individuo. Dal 2017 ha iniziato a raccontare a modo suo il mondo della scuola. Il suo primo romanzo “Portami il diario” lo ha pubblicato Rizzoli. Ed è un piccolo caso editoriale.
Di lei mi colpisce subito il linguaggo, la narrazione, la voglia di dare senso e storia alla sua esperienza per dare senso e storia all’esperienza di tutti.  Evito subito l’accusa di benaltrismo che sento arrivare. So benissimo che i problemi della scuola sono oggi più che mai seri e complessi. Problemi che il Covid-19 ha reso drammatici. E non basta certamente un blog divertente e ben scritto per risolverli. La confusione istituzionale regna sovrana. Non è chiaro cosa succederà, non sappiamo bene cosa imporrà il protocollo di sicurezza,  come funzionerà la quarantena in caso di contagio, se gli studenti dovranno portare la mascherina durante le lezioni, se le scuole avranno spazi adeguati e a norma,  in che modo si potrà rendere efficace e verificabile la didattica a distanza, come poter recuperare tutto quello che è stato perso durante quest’anno, come organizzare in sicurezza il trasporto pubblico, come evitare la dispersione scolastica, come aiutare le famiglie che non possono gestire eventuali chiusure, come evitare di convolgere i nonni che sono i soggetti più rischio. Tante domande a cui il linguaggio burocratico e sindacale offre risposte lugubri, inefficaci, spesso banali, inadeguate. Oppure risponde la politica che oscilla tra generici proclami di buona volontà e l’accusa di voler trasformare la scuola in un lager.
Per fortuna ci sono scuole e dirigenti scolastici che si sono mossi per tempo rispondendo velocemente ai bandi del governo per la messa in sicurezza degli edifici scolastici con interventi di piccola edilizia e che stanno parlando con i sindaci per trovare luoghi alternativi per aumentare gli spazi per la didattica e con le aziende pubbliche di trasporto per scaglionare gli ingressi e consentire di andare a scuola in totale sicurezza. Insomma  c’è un sacco di gente che si è rimboccata le maniche perché un Paese senza scuola è un Paese destinato al declino. Lo fanno anche se interessa a pochi. La scuola è una istituzione pubblica che non gode di buona reputazione, gli insegnanti non hanno più un ruolo riconosciuto nel processo di crescita e formazione dei nostri figli, conviene alla politica occuparsi di altro.
In questo contesto leggo la professorezza  Petri. Ad esempio  Il suo ultimo post.
Ragazzi, non lo so.
Sono consapevole che di solito, quando mi fate un domanda, io sono in grado di fornirvi una risposta accettabile, o quanto meno dirvi dove andare a cercare una risposta seria ed autorevole.
Ma adesso non lo so.
Non lo so, come sarà l’anno prossimo.
Non riesco a immaginarlo.
Non so come entreremo in classe, non so neppure che effetto mi farà rivedervi tutti davanti a me, nonostante la paura, nonostante tutto.
Non so per quanto tempo la scuola riuscirà a snodarsi normalmente, non so quando ci sarà il primo intoppo, il primo sospetto, la prima chiusura.
Niente male come inizio. Poi sposta l’attenzione sul suo rapporto personale e diretto con gli studenti. E mentre leggo mi rendo contro che l’unico modo di raccontare la scuola è questo. In queste parole non c’è spazio per una rivendicazione sindacale, il proclama di un preside, la dicharazione di un politico, la delibera di un sindaco o la circolare del provveditore. Quello è o mondo a priori, delle regole, deve o dovrebbe funzionare a prescindere.  In aula però non ci sono le circolari,  ci sono solo gli studenti e gli insegnanti.  Con o senza Covid-19. E nella memoria di entrambi resterà solo il tempo passato insieme e a cosa è servito.
Non so come riuscirò a cavarmela quest’anno: pensavo che la cosa peggiore fosse la didattica a distanza, ma quella almeno ci accomunava tutti, nel bene e nel male, mentre qui si paventa una specie di didattica in presenza e poi a distanza a singhiozzo, e non so se avrò la forza necessaria per gestirla.
Non so ancora esattamente cosa cambierà nelle nostre relazioni: di certo non potrò più rubarvi le patatine dal sacchetto nell’intervallo, di certo non passerò tra i banchi raccogliendo quaderni, ammirando unghie con i brillantini, toccando ciuffi marmorizzati dal gel, prendendo in prestito bianchetti.
Non so se in questi mesi tutti si siano attrezzati con gli strumenti tecnologici necessari, ho paura di no.
Non so se riusciremo a uscire dall’aula, ad andare a vedere cose belle, ad ascoltare persone diverse, a metterci alla prova.
Non so se sarà lo stesso guardarci in faccia e non so cosa leggerò nei vostri occhi.
Non so cosa voi leggerete nei miei, e voi siete lettori molto attenti.
Non so neppure se ci sarò io tutto l’anno, a dirla tutta, o se sarà necessario che qualcuno mi sostituisca, almeno per un po’, finché è necessario.
Dal suo dialogo con gli studenti esclude tutto quello che hanno detto o che  diranno da fuori. “Ci hanno detto andrà tutto bene, me è un motto stupido per un anno scolastico, qualunque anno scolastico. Non va mai tutto bene. Va male una verifica, va male un’interrogazione. Va male quando la tipa ci lascia, va male quando si litiga con l’amico di sempre, va male quando quello carino dell’altra classe si mette con un’altra. È la scuola, non va mai TUTTO bene”. Anche senza virus. Le cose davvero importanti, quelle che contano davvero, sono quelle che ci diciamo noi. Abbiamo una missione da compiere. Imparare insieme. E lo faremo. Malgrado il Covid, la Ministra, il comitato scientifico, la circolare sindacale o la delibera del sindaco. Imparere è un diritto, un dovere, la cosa più importante che possiamo e dobbiamo fare per migliorare il mondo dove ci sta capitando di vivere.
Ma, per la miseria, sono un’insegnante, sono un’adulta. E qualcosa la so.
So che non ci siamo fermati lo scorso anno, con quello che abbiamo visto.
So che abbiamo tirato fuori i computer, i telefoni, gli appunti, le palle.
So che all’inizio è sembrato divertente, quasi una pacchia, poi preoccupante, poi irritante, poi scoraggiante, poi inquietante, poi, cazzo, a scuola non siamo tornati più e non ci siamo più visti, eppure un qualcosa l’abbiamo fatto lo stesso. Migliorabile. Discutibile. Ma l’abbiamo fatto.
So che non siamo più impreparati e increduli come qualche mese fa.
So che abbiamo imparato cose. Tante cose.
So che ce la faremo e non perché è una frase fatta, ma perché è così.
Perché so che giugno arriverà, giugno arriva sempre, ditemi un anno scolastico, anche il più brutto della storia, in cui giugno non sia arrivato.
Giugno arriverà e ce l’avremo fatta anche stavolta.
Non importa quanto sarà difficile.
È solo un anno di scuola, dài. Quanto può farci paura?
In alto le bacchette.
L’anno scolastico è alle porte.
Prendiamole a spallate.