Il “senso” universale del flamenco

flamenco

A Siviglia sono le tonás e le sevillanas, i palos (stili) caratteristici e considerati tra i  più famosi della Spagna. Il “senso” per il flamenco in quella città lo avverti ovunque, nelle case, per le strade e soprattutto nei tablaos, i caffè dove ogni sera si suona e si balla. Il flamenco qua è un’arte. La puoi capire visitando il Museo di Cristina Hoyos Panadero, la ballerina di flamenco più famosa di Spagna, che con Antonio Gades è stata viso, corpo e movimento nella trilogia cinematografica che il regista Carlos Saura ha dedicato proprio al flamenco. E sempre qui fervono i preparativi per la Biennale del Flamenco che verrà messa in scena nel 2024. Ma il suo suono lo senti in tutto il mondo. Anche in Italia. Dai grandi eventi, come il Milano Flamenco Festival che quest’anno celebra la sua 16a edizione il 16 novembre in occasione della Giornata Mondiale del Flamenco, a quelli piccoli che trovate ovunque. Se, ad esempio, domenica andate al Barco Teatro di Padova scoprirete Sabor Flamenco. Passi di danza accompagnati da tapas spagnole.

Riconosciuto come un’arte universale, nel 2010 il flamenco è stato inserito nella lista UNESCO dei Patrimoni Culturali Immateriali.
Perché? Andiamolo a scoprire.
Il flamenco è danza e musica, ma non solo. Il flamenco è un universo che incorpora storia, racconti, emozioni e culture e per capirne l’essenza è necessario fare un salto all’indietro nel tempo.

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Un po’ di storia

Nasce in una regione del sud della Spagna, l’Andalusia, il cui nome deriva da al-Andalus, cioè il modo in cui gli arabi-berberi chiamavano la parte della penisola iberica che, pur trovandosi per otto secoli (dal 710 al 1492) sotto il loro dominio, ha dato un alloggio comune alle popolazioni che professavano le tre grandi religioni monoteiste. Cristiani, Musulmani, Ebrei. Un periodo in cui l’Andalusia costituiva un universo cosmopolita, caratterizzato da una grande prosperità multiculturale e dedito alla tolleranza.
Ma con l’arrivo dei Re Cattolici si concluse la Reconquista (1492), il processo bellico di recupero, da parte dei cristiani, dei territori in mano agli arabi. Ciò segnò, tra le altre cose, una virata verso l’impostazione di un esclusivo ordinamento religioso, quello cattolico. Di conseguenza, l’unico modo per evitare, a coloro che erano diventati “infedeli”, l’espulsione dal Paese consisteva nella conversione, logicamente forzata e, quindi, spesso simulata, alla fede cristiana.

I Gitani

Questo territorio, tra il 1400 e il 1500, era divenuto meta anche dei Gitani, popolo nomade proveniente dall’India. I motivi della loro migrazione, ad oggi, dato che non hanno una lingua e una letteratura codificate a livello scritto, sono sconosciuti, ma si suppone che siano stati dovuti o a una catastrofe naturale o a una sconfitta militare. Una delle tante diaspore della storia. Fatto sta che nell’Andalusia, essi, trovarono un luogo che finalmente non li espulse, permettendogli, anzi, di continuare a praticare, per un periodo di tempo abbastanza lungo e in modo sedentario, i loro costumi tradizionali.
Essi si dedicavano, infatti, ad attività quali la tosatura degli animali, la coltivazione della terra, il commercio ambulante, eccellevano nella lavorazione dei metalli, spesso dediti a traffici illegali, erano dei musicisti talentuosi. È a loro che si deve la nascita del flamenco. Le donne erano specializzate nella fabbricazione dei sigari, le cosiddette “sigaraie”, talmente belle e affascinanti che, non a caso, Georges Bizet nel 1875 gli dedicò la famosa Carmen.
Ma costituivano un gruppo chiuso, poco integrato nella società dell’epoca.

Federico García Lorca, il grande poeta spagnolo del primo ‘900, ottenne il suo primo successo letterario proprio con il Romancero Gitano, nel 1928. L’opera, composta da 18 poesie, nella quale si fondono i motivi popolari andalusi e la tecnica poetica più raffinata, vuole far intuire ciò che dell’Andalusia non si vede e non si conosce perché, di solito, non viene raccontato. Perché il tema dei Gitani è un tema scomodo. Questo popolo ha vissuto a lungo al margine delle convenzioni sociali e, di conseguenza, è stato emarginato. Deputato alla malavita, alla ribellione, alla morte. E García Lorca narra l’anima gitana, romantica, dedita alla natura, ai sentimenti, alla famiglia, come un’anima eroica e allo stesso tempo tragica, mitica e drammatica. Un’anima, naturalmente creatrice e portatrice di arte.
Garcia Lorca racconta il tempo in cui tale popolo diventò parte integrante dell’Andalusia, visto anche che allora nelle principali città sorsero quartieri gitani come il barrio (quartiere) di Triana a Siviglia, il barrio de Santiago a Jerez de la Frontera o quello di Santa Maria a Cadice.
Il “senso” del flamenco lo capisci anche così.

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La musica

Le comunità araba, ebrea, gitana e andalusa si influenzarono reciprocamente e, nello specifico dell’arte musicale, a poco a poco, sorsero specifici ritmi e modi di cantare, accomunati dall’essere eseguiti da popoli travagliati e perseguitati, appartenenti agli strati più bassi della popolazione.
Nasce così l’arte del flamenco.

L’etimologia del termine è incerta: secondo alcuni deriva dall’arabo felag mengu, ovvero “contadino in fuga” o “contadino senza terra”, locuzione riferita ai musulmani o agli ebrei costretti a spostarsi da un luogo all’altro con lo scopo di sfuggire alle persecuzioni perpetrate contro i non cattolici. Secondo altri deriva dall’aggettivo spagnolo flameante, cioè ardente, riferito alla relativa caratteristica esecuzione degli artisti e all’appariscenza dei loro abiti.

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Quindi, che cos’è il flamenco?

È la manifestazione di un sentimento. È un grido alla vita. Un’arte composta da tre elementi principali: il cante (canto), il baile (danza) e il toque (musica).
La voce del cantaor (cantante) esprime un grido di dolore attraverso cui racconta l’amore, il peccato, le persecuzioni e la ricerca della libertà. È un canto disperato, intimo, sofferto. I testi riportano le tradizioni e le credenze gitane, le sofferenze dovute all’emarginazione, alla povertà e alla fame, il valore della famiglia come punto di riferimento e nucleo di protezione. Si racconta che durante le persecuzioni, ai gitani veniva imposto di abbandonare i loro usi e costumi, pena il taglio delle orecchie, per questo motivo nel flamenco si sentono i tipici lamenti ahy… ahy.
La musica e il ritmo imposti dalla chitarra e dalle nacchere costituiscono un invito alla danza.

Ed ecco le ballerine, o meglio, le bailaoras, che hanno un fiore rosso incastonato tra i capelli raccolti, dei grossi orecchini a cerchio, un corpetto scollato e una gonna lunga, spesso a balze, che fascia i fianchi e lascia scoperte le scarpe dai pochi, ma necessari, centimetri di tacco.
Perché il taconeo, il marcato movimento cadenzato dei talloni della ballerina, deve produrre rumore, un rumore che funge da richiamo per introdurre il canto, per marcare la fine di una battuta o per eseguire degli autentici assoli, anche solo ritmici. Un dialogo appassionato.
Il movimento delle mani e dei polsi accompagna quello delle braccia, cadenzato morbido e tagliente, mentre i fianchi impongono sinuosità al moto dei piedi, capace di scandire un’armonia potente, totalizzante.

Non meno importante è l’espressività del volto dell’artista, il cui sguardo fiero e profondo ritrae le vicende e le emozioni di un popolo che, attraverso questo canale, rivela al pubblico; e così, esprimendo pene e gioie, si libera, si sfoga con passione mentre ci racconta una storia.
Questo è il flamenco.
Da ballare, ascoltare, guardare.