“CERA UNA VOLTA”
ONCE UPON A TIME
senza apostrofo
Inaugura allo Studio Gennai di Pisa (Via S. Bernardo, 6) la personale di Danilo Sergiampietri “CERA UNA VOLTA”. Nessun errore di ortografia ma una forzatura semantica della nuova ricerca sui materiali dell’artista spezzino. Danilo Sergiampietri forza il materiale, la cera, con caparbietà e perseveranza, cogliendone le sfumature di colore e di trasparenza. Utilizza cere di diversa natura, da quelle artificiali, derivate dal petrolio e dalla paraffina, a quelle naturali, come la cera d’api, talvolta inglobando gli operosi insetti dentro le colate, oppure facendoli diventare il pretesto per giochi di parole. Altre volte, nella cera rimangono intrappolati lumini vuoti, oggetti per decorazioni dolciarie, lettere in ferro. La materia si trasforma, si piega, si curva, ci restituisce imprevedibili risultati estetici. La serie di lavori che ne risulta viene esposta alla galleria IL GABBIANO arte contemporanea e per la composizione del catalogo che accompagna la mostra, ho posto alcune domande a Sergiampietri. Il dialogo che abbiamo iniziato, e che qui trovate trascritto, permette di avvicinare il suo metodo di ricerca e di lavoro e di conoscere più a fondo aspetti intimi della sua personalità.
Pubblichiamo un estratto del dialogo con l’artista curato da Francesca Cattoi. Le foto sono di Roberto Vendasi.
Questa tua nuova personale a IL GABBIANO arte contemporanea presenta quasi per intero la serie di opere che hai realizzato lavorando con la cera. Come scegli un materiale piuttosto di un altro? Quanto è importante per te confrontarti con esso? Come procede il tuo lavoro man mano che il tuo controllo diventa più profondo e si prolunga nel tempo?
Il tempo della scelta è sempre piuttosto lungo e complesso. Il primo lavoro che comprende l’uso della cera è del 2009, una giustapposizione tra resina e cera con fasi di realizzazione complicate ed una affascinante serie di problemi tecnici da risolvere. Nel 2011 altri tre lavori, il principale per la collettiva “L’idea del marmo” al Gabbiano. Qui la cera fu utilizzata con alcuni centimetri di spessore e colando cere leggermente diverse tra loro in tempi diversi. Il risultato è un materiale con una trasparenza ed una trama che ricorda il marmo statuario. In questi lavori compare anche per la prima volta la scritta CERA, fin dall’inizio un gioco tra la parola che identifica il materiale utilizzato e quella che indica il fatto che prima C’ERA qualcuno o qualcosa che adesso non c’è più. Il tema è rimasto sotto traccia durante gli anni di realizzazione di GAS (1), anni caratterizzati da un lavoro di indagine sulle possibilità del metallo. Giunto a saturazione quello studio, mi serviva un cambio di passo, un interesse nuovo, altri problemi tecnici da risolvere. Un paio d’anni fa, una sera, davanti a due nuovi lavori in cera, Fernando Andolcetti ed io abbiamo convenuto che forse si poteva approfondire il tema in previsione di una mostra specifica.
Una delle caratteristiche del tuo lavoro è la variazione, e/o ripetizione, di una tipologia compositiva e tecnica, così che ottieni dei nuclei di lavori che diventano serie distinte e coerenti in se stesse. Utilizzando la serialità, riesci a sviluppare un tema e a forzare un materiale a soluzione inedite. Come hai individuato nella serialità il metodo che ti permette di esprimere al meglio la tua progettualità?
Non sono sicuro del tutto del motivo per cui mi affido alla serialità. Anni fa, quando dipingevo sentivo l’esigenza di approfondire alcuni aspetti che mi sembravano interessanti e arrivavo quasi sempre a comporre dei trittici. In genere, cercavo di evitare di trovarmi davanti alla tela bianca, non mi sono mai sentito un pittore. Ho dovuto inventarmi un mio modo di operare per essere sicuro di propormi come artista. La serialità mi viene in aiuto quando capisco che un’idea o un progetto sono interessanti, stimolanti, e anche originali: per me è molto importante avere la certezza che quello che sto facendo non sia ancora stato fatto. In seguito il progetto incomincia a svilupparsi con approfondimenti concettuali e tecnici, idee nuove ad ogni passo, che nascono dalla realizzazione fisica dell’opera. Il fine ultimo è quello di poter lavorare, mescolare, sperimentare, accumulare, elencare, forare, ossidare, colare: è questa la parte più piacevole. Anche il fatto di scegliere lavorazioni molto lunghe, complesse e noiose mi dà la certezza di poter prolungare nel tempo il piacere del fare. Poi, verso la fine del percorso, si scoprono possibilità inaspettate nel materiale e si imparano a fare cose che all’inizio sembravano impossibili, come piegare a piacimento la cera o ossidare il metallo in pochi minuti esattamente nel punto e nel modo desiderato. E’ a quel punto che il lavoro è finito e devo passare ad altro, altrimenti la realizzazione tecnica diventa routine.
Che rapporto c’è tra la tua professione di architetto e i momenti in cui ti dedichi al fare arte?
Ho sempre cercato di mantenere completamente distinti i due aspetti, quando sono in studio o in cantiere sono e faccio l’architetto, non mescolo mai le due facce della mia vita attiva. L’arte appartiene alla sfera in qualche modo segreta, che è stata nascosta a tutti per molti anni. Ho bisogno di ricavarmi dei momenti intimi e solitari per pensare e fare arte. In realtà le due “professioni” hanno molti punti in comune, specialmente nella prima fase progettuale sono molto simili ed utilizzano i soliti strumenti informatici. L’importante è, però, che rimangano distinte e vengano svolte in due modi, tempi e luoghi diversi. In un progetto architettonico l’esecuzione dell’opera viene totalmente delegata a terzi, in arte mi piace invece pensare a progetti che possano essere totalmente realizzati da me.
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Raccontaci, se ti va, con maggiori dettagli i momenti, le tappe che ti hanno portato a considerare l’idea di, e successivamente la possibilità reale, di dedicarti all’arte. Può essere interessante, a questo punto, avere maggiori informazioni sul tuo percorso personale e percorrere gli anni di avvicinamento alla tua maturità espressiva.
Per anni ho dedicato quasi tutto il mio tempo all’architettura. Dopo la laurea ho avuto, per circa dieci anni, uno studio che condividevo con due colleghi e che aveva sede a Genova. Avevamo grandi aspettative, pensavamo di cambiare il mondo, eravamo molto ambiziosi e il lavoro assorbiva le nostre energie ed il tempo a disposizione. L’arte era un sogno da coltivare in segreto nel poco tempo libero. Comprendeva visitare saltuariamente la Biennale di Venezia, oppure leggere qualche numero di Flash Art, senza troppa costanza per non avere troppe distrazioni. Pensavo che non avrei mai avuto la possibilità di fare l’artista, avevo una visione prevalentemente pittorica dell’arte ed in questo campo ero bravo, ma non sufficientemente convinto di poter eccellere. Questa situazione di vita è cambiata radicalmente tra il 2000 e il 2001, sia con la chiusura dello studio di architettura che con un cambiamento nella mia vita privata, situazioni che mi hanno portato a trasferirmi alla Spezia. Ho avuto l’opportunità di non lavorare per circa 4 – 5 mesi, un periodo strano, con tanto tempo a disposizione per leggere, pensare, studiare, sperimentare, dipingere. E’ stato allora che mi sono inventato un modo mio di lavorare, una via di mezzo tra architettura ed arte, dove all’inizio è importante avere un’idea forte, uno spunto, un punto di partenza da sviluppare poi attraverso un progetto esecutivo, anche con l’uso di programmi informatici specifici per l’architettura. A questo, segue la fase di realizzazione, che è per me la più bella e divertente, perché dopo aver pianificato tutto so cosa fare. Durante gli anni di studi universitari, si era nel pieno del movimento postmoderno, in architettura molto invasivo, quando con la citazione giusta si poteva risolvere un progetto architettonico. Ho fatto molta fatica ad affrancarmi dal postmodernismo, un problema che condividevo con tutta una generazione di architetti. Una volta trovato un mio modo personale di pensare e fare arte, mi sono dovuto liberare da tutto il bagaglio culturale precedente, mi sono isolato per alcuni anni, non documentandomi più sull’arte, né leggendo né visitando mostre, cercando di evitare ogni tipo di citazione. Ho lavorato molto e con intensità su un’unica idea, un progetto sulla rappresentazione delle quantità numeriche espresse nella tradizione religione cristiana nella storia dell’arte, senza dire niente a nessuno e senza fare vedere niente a nessuno per almeno 5 o 6 anni. Alla fine avevo pronta una serie di lavori che poi sono diventati la mia personale di esordio “Numeri”, composta da pezzi molto grandi e impegnativi con un tempo di esecuzione lunghissimo.
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