Vent’anni senza Kubrick.
Quattro buone ragioni
per cui vale la pena guardarlo
Lo scorso 7 marzo è stato il ventesimo anniversario della morte di Stanley Kubrick, uno dei più grandi geni della storia del cinema, scomparso alla vigilia del Terzo Millennio pochi giorni dopo aver terminato il montaggio del suo ultimo film postumo, Eyes Wide Shut. Cosa rende Kubrick tutt’ora così speciale, così necessario e, al tempo stesso, così lontano dalla contemporaneità?
Una delle risposte si può trovare nell’assoluta unicità di ogni sua opera, per cui ogni film di Kubrick non assomiglia a nessun altro, né all’interno della sua filmografia, né sconfinando in quella altrui. Nell’arco di 44 anni di attività, Kubrick ha diretto solo 13 film, il primo è uscito nel 1955 e l’ultimo nel 1999, ma ognuno di essi è stato capace di esprimere una personalità fortissima, lasciando ricordi indelebili nella memoria collettiva. In un’epoca, come quella contemporanea, in cui il cinema tende alla ripetizione di se stesso attraverso sequel, remake e reboot di storie già consolidate, e nella quale l’unica strada per tenere alto l’interesse del pubblico sembra essere la serializzazione, con il risultato che i singoli film di una determinata saga, anche se non direttamente seguito l’uno dell’altro, individualmente spesso risultano deboli, quella di Kubrick è una lezione di cui tenere conto. Là dove, adesso, i film tendono a somigliarsi anche al di fuori dei veri e propri franchise, con concetti e storie che vengono riproposti spesso in maniera parassitaria copiandosi a vicenda, senza un minimo di originalità, Kubrick realizzava opere completamente diverse dalle altre e fra loro. Puntare sulla qualità anziché sulla quantità, sull’eccellenza individuale di ciascuna opera anziché sulla sua conformità a certi schemi che vanno di moda, può essere la chiave per entrare nella Storia.
Un’altra risposta si può tradurre nella capacità dimostrata da ognuno dei suoi film di esprimere un punto di vista sempre nuovo e personale sui fatti raccontati solo attraverso le immagini, senza mai renderlo esplicito allo spettatore, ma stimolando al contrario la sua capacità di riflessione. Su qualsiasi vicenda, in qualsiasi ambientazione storico-geografica, e sotto ogni genere cinematografico, Kubrick si è avvicinato da una prospettiva mai percorsa, arrivando a conclusioni in grado di precorrere i tempi. Ha indicato tante strade nuove, ma nascondendo perfettamente il dito. Per lui il punto di vista – inteso sul piano prettamente visivo, come sguardo sui fatti in cui questi sono al centro – ha un’importanza fondamentale, per questo è ben lontano dal declamare una morale a parole. A quella deve pensare chi guarda. Non bisogna dimenticare che Kubrick aveva una sfrenata passione per la fotografia, dalla quale derivano sia la cura maniacale per i particolari in ogni inquadratura, sia la capacità di trasmettere emozioni attraverso le immagini. «Se può essere scritto, o pensato, può essere filmato», era il suo motto. Una filosofia che comporta anche grande rispetto per l’intelligenza dello spettatore, chiamato a elaborare quanto visto sullo schermo e a trarne un messaggio. Un’idea di cinema agli antipodi di quella per cui un film debba spiegare tutto a parole perché il pubblico è disattento, superficiale e troppo pigro per farsi un’idea propria.
Una terza risposta può arrivare dalla profondità dei personaggi che popolano il suo cinema, che va spesso di pari passo con la loro iconicità. Prendiamo come esempio il Jack Torrance interpretato da Jack Nicholson in Shining, unico film del regista ascrivibile al genere horror. A differenza delle altre icone dello stesso genere emerse più o meno nello stesso periodo, Jack inizialmente non è un mostro. È uno scrittore, un marito, un padre di famiglia, magari frustrato e insoddisfatto, ma comunque una persona in cui chiunque, più o meno, può identificarsi. Con problemi di alcolismo e di disoccupazione, ma scettico nei confronti del destino del precedente guardiano dell’Overlook Hotel e della possibile maledizione che grava su quel luogo. La sua discesa nella follia dopo il trasferimento all’hotel, che lo porta a trasformarsi piano piano, di pari passo con il totale isolamento e la crisi creativa, nello spauracchio entrato nel nostro immaginario, con l’ascia in mano e il ghigno allucinato fisso sul volto, è raccontata in maniera talmente coinvolgente sul piano emotivo, da farci provare prima sofferenza per lui, poi paura, e infine sollievo quando finisce vittima dello stesso destino su cui ironizzava. Il nostro sentimento nei confronti del personaggio cambia progressivamente con l’aggravarsi della sua condizione. Proprio l’antidoto alle caratterizzazioni monodimensionali, con la battuta facile e lo spessore di un foglio di carta, dei protagonisti del cinema contemporaneo, la cui evoluzione interiore avviene spesso in maniera frettolosa e alquanto forzata.
Una quarta e ultima risposta potrebbe risiedere nell’utilizzo totalmente personale, e volutamente straniante, delle musiche rispetto all’immagine filmata. Molto spesso, nelle opere di Kubrick, alle sequenze più violente o drammatiche si accompagnano melodie soavi e leggiadre, che esprimono emozioni e stati d’animo di felicità o spensieratezza o comunque del tutto divergenti rispetto a quanto suggerito dalle immagini sullo schermo. Esempi possono essere, in questo senso, la canzone swing romantica We’ll meet again, cantata da Vera Lynn, in sottofondo all’apocalisse nucleare alla fine de Il Dottor Stranamore, o le sinfonie di Beethoven che fungono da colonna sonora all’ultraviolenza del protagonista di Arancia meccanica. A volte, sono gli stessi protagonisti a cantare canzoncine innocenti mentre sono impegnati in azioni in cui di innocenza non c’è la minima traccia. È ancora il caso di Arancia meccanica, dove Alex canta Singing in the Rain mentre pesta selvaggiamente una persona inerme, o di Full Metal Jacket, nel cui finale i marines, dopo aver assistito e preso parte a ogni genere di orrore bellico in Vietnam, intonano in coro la marcia di Topolino. Il dolce suono della musica sottolinea maggiormente, creando una sorta di corto circuito emotivo, la portata dell’orrore che le persone sono capaci di esprimere – secondo Kubrick, l’uomo di per sé è un “cattivo selvaggio” – e la totale follia che ne consegue. Allo stesso tempo, da un certo punto di vista, almeno per chi scrive, questa scelta potrebbe suggerire il bisogno di illudersi che esista ancora un residuo di umanità, qualcosa che permetta di rimanere lucidi e non finire sommersi dalla propria stessa barbarie distruttiva. Un’illusione che, di fronte alla realtà, non può che generare un’ironia molto amara e mai consolatoria.