La comunicazione sta uccidendo informazione e democrazia

Per effetto di una serie di pronunce della Corte Costituzionale, ai giornalisti in servizio presso gli uffici stampa pubblici non è più applicabile il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro Giornalistico. Cosa significa? Che professionisti e pubblicisti in forza a Istituzioni e PA hanno perso il loro status di giornalisti e sono diventati, a tutti gli effetti, semplici funzionari pubblici.
Qualcuno se n’è accorto? No. A qualcuno importa? No. Eppure si tratta di un problema molto più grave di quanto non appaia. Problema che riguarda tutti, non solo i giornalisti. Il valore della libera informazione, infatti, è essenziale per la vitalità e la sopravvivenza stessa di qualunque democrazia. È del tutto evidente, infatti, che – in un tempo nel quale persino i giornalisti “veri” faticano a far rispettare le loro autonomia, professionalità e deontologia – è assai difficile immaginare che possano riuscirci dei “finti” giornalisti, ingabbiati in un contratto – quello del pubblico impiego – oggettivamente incompatibile con l’esercizio della professione giornalistica. Ma è proprio questo il punto: nessuno vuole dei professionisti dell’informazione. Tutti vogliono semplici comunicatori.
E, così, da oggi in poi, qualunque Direttore Generale o Amministratore Pubblico potrà far valere i propri super-poteri di Editore/Direttore, con buona pace di autonomia professionale, norme deontologiche, libertà di informazione e critica, rispetto della verità sostanziale dei fatti.
Sono giornalista da più di vent’anni e, da più di vent’anni, lavoro in uffici stampa pubblici: so perfettamente di cosa parlo. Parlo di un esasperante braccio di ferro quotidiano su tutto: contenuti, linguaggi, modalità, tempistiche. Braccio di ferro tra chi tenta di mettere in condizione i giornalisti “veri” – quelli che operano fuori dai palazzi della politica e delle PA – di fare il loro mestiere (informare, cioè, correttamente e tempestivamente, la pubblica opinione) e chi, invece, cerca di impedirlo.
Risultato? La tua Amministrazione ti considera una rompiscatole – se non, addirittura, una “spia” – i giornalisti “veri”, una incapace. E, sia l’una che gli altri, una giornalista di Serie B. Ebbene, da oggi, questo braccio di ferro diventerà quasi impossibile da sostenere. L’Amministrazione ci ha, finalmente, neutralizzati, i colleghi ci considereranno sempre più inutili e noi ex-giornalisti perdiamo professionalità, autorevolezza e “peso specifico”.
Anche se nessuno se ne rende conto, il fatto che la comunicazione stia uccidendo l’informazione è di una gravità assoluta.
Al contrario di ciò che, comunemente, si crede, infatti, i due termini non sono affatto sinonimi. Informare significa dire all’opinione pubblica ciò che essa vuole (e deve) sapere; comunicare, invece, significa dire solo ciò che una certa Amministrazione vuole far sapere. La differenza è abissale. Mentre chi informa, infatti, fa l’interesse dell’opinione pubblica (e, dunque, dell’intera popolazione di un Paese), chi comunica fa unicamente l’interesse dei suoi “editori di riferimento”. Storia, logica e buon senso dicono, con inoffuscabile chiarezza, che quasi mai – per non dire mai – i due interessi coincidono.
Non solo: mentre un giornalista è tenuto a dire la verità (che, poi, non lo faccia è un altro paio di maniche), un comunicatore – essendo libero da qualunque vincolo deontologico – può ometterla o negarla tranquillamente, fino al punto di rendere, di fatto, la comunicazione sinonimo di pubblicità. E, così – in mancanza di verità alternative – ogni volta che un oste giurerà che il suo vino è il migliore, saremo costretti a credergli.
La verità è che politica e PA non hanno mai avuto la benché minima intenzione di informare. Esse vogliono, semplicemente, comunicare. Vogliono, cioè, che l’opinione pubblica conosca le loro virtù. Ma, ancora più di questo, vogliono che ignori del tutto i loro vizi. E di certo non vogliono che dei “pennivendoli” – interni o esterni che siano – ficchino il naso nelle loro case, andando a vedere se, per caso, qualcuno abbia nascosto della polvere sotto i tappeti.
Tutto questo non si chiama informazione: si chiama propaganda.
Secondo voi – messi i giornalisti in condizione di non nuocere, e affidata la comunicazione pubblica a ragazzini inesperti, malpagati, privi di qualunque professionalità, deontologia e tutela contrattuale – sarà più facile o più difficile, per organi di informazione e opinione pubblica, capire come stanno davvero le cose?
In gioco, dunque, c’è molto più delle limitazioni all’esercizio della professione giornalistica o delle penalizzazioni economiche derivanti dal congelamento, a vita, degli stipendi degli ex-giornalisti delle PA i quali, quando – tra cinque, dieci o quindici anni – andranno in pensione, lo faranno sulla base del loro stipendio di oggi, con ricadute tutt’altro che insignificanti su assegno pensionistico e TFR. (Davvero tutto ciò è costituzionale?)
In gioco c’è il futuro stesso dell’informazione. E, con esso, il coefficiente di democrazia del nostro Paese. Un dettaglio? Sicuri?
Già oggi il “Democracy Index 2022” dell’Economist Intelligence Unit ci considera una “democrazia imperfetta”, collocando il nostro Paese al 34esimo posto (3 posizioni in meno dell’anno scorso) tra i 167 paesi esaminati. Decisamente più democratici di noi, Germania (14), Australia (15), Giappone (16), Regno Unito (18), Austria (20), Francia e Spagna (22), Grecia (25), Israele (29) e Stati Uniti (30). Norvegia (1), Nuova Zelanda (2), Islanda (3), Svezia (4), Finlandia (5), Danimarca (6), Svizzera (7), Irlanda (8), Olanda (9) e Taiwan (10), formano, invece, la top ten dei paesi a più alto coefficiente di democrazia.
Persino peggiore di così la valutazione del nostro Paese nel “Press Freedom Index” (l’indice della libertà di stampa) redatto, ogni anno, da Reporter Senza Frontiere: se, nel 2021, l’Italia occupava una non onorevole 41esima posizione, nel 2022, ha perso ben 17 posizioni, precipitando al 58esimo posto.
Meglio di noi, oltre alle solite “prime della classe” [Norvegia (1), Danimarca (2), Svezia (3), Finlandia (5)], non ci sono solo Irlanda (6), Portogallo (7), Svizzera (14), Germania (16), Belgio (23), Regno Unito (24), Francia (26), Olanda (28), Austria (31), Spagna (32), Australia (39) e Stati Uniti (42), ma – sia detto senza offesa per nessuno – anche paesi come Costa Rica (8), Jamaica (12), Namibia (18), Trinidad e Tobago (25), Bhutan (33), Guyana (34), Capo Verde (36), Burkina Faso (41), Korea del Sud (43), Tonga (49) e Gambia (50).
Non credete che ci sia di che riflettere? In che posizioni scivoleremo, andando avanti di questo passo?
Visto che quasi nessuno – persino tra gli addetti ai lavori – sembra preoccuparsi del fatto che la comunicazione stia uccidendo l’informazione, una cosa è certa: non risaliremo. Sarà già tanto, anzi, se non continueremo a perdere posizioni su posizioni.
L’informazione è morta, dunque. Ed è un pessimo segnale. Per qualunque democrazia. Ci interessa?
“God save the thruth”.
Scritto da Simona Vail