Caro Ettore, siamo una generazione sfigata. Caro Lucio, non abbiamo pensato al futuro

Ettore Pietrabissa, un momento dello spettacolo

L’ospite d’onore lava i piatti – due generazioni allo specchio andato in scena al Teatro Niccolini di Firenze tratto dall’omonimo libro edito da Gangemi pone al centro del dibattito pubblico alcune considerazioni non banali sullo scontro generazionale dichiarato e mai scoppiato tra chi si è affacciato al nuovo millennio imbottito di certezze e chi, arrivato dopo, deve rassegnarsi all’idea di non averne più. Lucio Fava del Piano ed Ettore Pietrabissa si raccontano e raccontano uno spaccato del nostro paese cercando di capire come siamo diventati quello che siamo oggi, separati da una trincea di drammatiche differenze.

 

Caro Ettore,
è bene mettere subito una cosa in chiaro: noi siamo una generazione sfigata. Anzi, a pensarci bene, molto sfigata.
Quando dico noi intendo quei tot milioni di persone nate in Italia approssimativamente negli anni ’70. Quelli che a questo punto dovrebbero essere la spina dorsale della società, della cultura, dell’economia, dello sviluppo, anche della politica e dell’amministrazione della cosa pubblica e che, effettivamente, in quasi tutto il mondo tendono a essere tutte queste cose. Ma in Italia no.
In Italia i trenta-quarantenni di oggi sono la generazione dei bamboccioni che tardano a lasciare il nido di mamma e papà e a metter su famiglia, sono la generazione dei precari che si dibattono tra mille e uno lavori per mettere insieme il pranzo con la cena dal primo al 31 del mese, sono la generazione delle infinite possibilità, che però faticano dannatamente a realizzarsi.
Sono, non trovo parola più indicata, una generazione di sfigati.
Ora, attenzione, l’errore che comunemente si tende a commettere di fronte agli sfigati è liquidarli con un’alzata di spalle, dedicargli un’occhiata di compatimento al pensiero di “poverini, sono nati sfigati”.
È l’errore più grande che si possa compiere.
Perché noi, sempre quei noi di prima, non siamo nati sfigati. Non si è trattato di una botta di sfortuna decennale, di un lancio di dadi sbagliato del Direttore Supremo, di una congiunzione astrale rarissima. No, niente di tutto questo.
La nostra generazione è stata costruita poco alla volta, con perizia degna di miglior fine, un mattoncino di sfiga sull’altro, un incastro di puzzle che non può non far pensare a un disegno diabolicamente preordinato.
Siamo stati illusi, ci hanno, fatto sognare e sperare e poi ci hanno fregato senza alcun ritegno.
Per esempio, parliamo di soldi, di lavoro, di carriera. Quando abbiamo cominciato ad avere l’età per capire qualcosa eravamo nei trionfanti anni ’80. Trionfanti per cafonaggine ed esibizionismo, valuteremmo oggi, ma allora sembravano a tutti solo il manifesto di un progresso e di uno sviluppo inarrestabili. “Andate e arricchitevi tutti” era il messaggio che sembrava grondare da ogni dove, confuso anche tra tette e culi del Drive In.
E noi ci abbiamo creduto. Abbiamo studiato marketing, e neanche sapevamo bene cosa fosse, abbiamo visto un futuro popolato di soli top manager, di macchine rombanti, case con terrazzo, vacanze esclusive, computer onnipotenti e poi telefonini squillanti. Oggi, è quasi inutile farlo notare, i più fortunati tra noi sono precari.
Insomma, è come se ci avessero invitati come ospiti d’onore a un banchetto e poi, arrivati puntuali alla cena, avessimo scoperto che gli altri, i vecchi, si erano già mangiati quasi tutto, lasciandoci briciole e avanzi, e che oltretutto ci toccava anche sparecchiare, lavare i piatti e dare una pulita ai pavimenti.
Al di là di tutto e degli esempi che si possono fare, la nostra sfiga primigenia risiede nel fatto che alla fin fine siamo una generazione di fuori tempo.
Siamo arrivati troppo tardi per partecipare ai movimenti giovanili e studenteschi degli anni ’60 e ’70, ma troppo presto per crescere totalmente alieni da passioni ideologiche e fregarcene altamente di tutto come i ventenni di oggi.
Siamo troppo vecchi per poter essere una generazione di internet-nativi, ma troppo giovani per non essere costretti a fare tutti i giorni i conti con la tecnologia.
Siamo sbarcati sul mercato del lavoro troppo tardi per poterci godere il famoso posto fisso di un tempo, ma anche troppo presto per avere una mentalità naturalmente predisposta alla flessibilità, alla libera iniziativa e ai continui cambiamenti.
Siamo insomma una fetentissima generazione di mezzo, sempre troppo presto o troppo tardi per tutto, fuori tempo, fuori fuoco.
E, in fondo, siamo diventati coscienti di essere una generazione di sfigati. E quasi quasi, intorno alla soglia dei 40, cominciamo anche a crogiolarci in questa identità di perdenti, di romantici perdenti, di perdenti di talento, di simpatici perdenti, di simpatici perché-perdenti. Un po’ come erano gli interisti fino a qualche anno fa.
Ecco, questa è la situazione.
Invece voi, voi nati approssimativamente nei dieci anni successivi alla seconda guerra mondiale, voi siete una generazione alla quale è andata di culo.

 

Caro Lucio,
ma sì, ammettiamolo, alla mia generazione è andata di culo, almeno fino a qualche anno fa.
Per noi nati nel decennio dopo la guerra il punto di partenza era talmente basso, che non si poteva che migliorare.
Non che siano state tutte rose e fiori. Ricordo bene quanto, da bambino, le conseguenze dei disastri bellici e post-bellici pesavano sulla nostra vita.
Ricordo la paura continua dei residuati tipo bombe a mano, proiettili inesplosi e simili, che infestavano campagne e città e in larga misura precludevano la libertà di giocare liberamente.
Ricordo la povertà diffusa, i grandi scioperi per i primi fondamentali diritti dei lavoratori, le città sventrate che per anni hanno continuato a presentare i mozziconi delle case bombardate, accanto ai nuovi palazzi.
Sono stati gli anni, però, di una nuova rinascita, e ricordo bene la diffusa sensazione che ce la potevamo fare.
Siamo cresciuti, quindi, con l’idea delle “magnifiche sorti e progressive” (vedi i miei studi classici?), che ci avrebbero condotto, a patto di lavorare duramente, ad una nuova prosperità.
Ecco, forse un dato importante degli anni ’50, ma poi direi anche degli anni ’60 e ’70, è che si pensava, si sentiva, si “sapeva” che lavorando si poteva riuscire.
Io mi sono laureato nel 1971 e ricordo bene la noncuranza con la quale si entrava nel mondo del lavoro. Non ci passava neanche per l’anticamera del cervello la possibilità di non trovare un posto. Il Paese cresceva, le occasioni si presentavano abbondanti per tutti, e ho iniziato a lavorare immediatamente dopo l’università, avendo accettato un impiego che mi era stato offerto addirittura tre mesi prima della laurea.
Capisci che la mia generazione si è affacciata alla vita vera guardando il mondo con occhi nuovi e avendo davanti un mondo di opportunità che era percepito come inesauribile.
E qui iniziano le responsabilità della mia generazione verso la tua.
Sì, perché tra gli anni ’70 e gli anni ’80 si è scatenata una straordinaria gara a chi era più egoista.
Ce ne siamo fregati di tutto: del mondo intorno a noi e delle generazioni future.
Il nome del gioco era: le risorse sono infinite, noi siamo forti, arraffiamo e godiamocela, alla faccia di chi ha fatto la fame prima di noi e di chi deve venire dopo di noi.
Certo, è stata costruita molta ricchezza. Certo, l’Italia è diventata il settimo paese industrializzato del mondo. Certo, per due decenni è parso evidente che si fosse trovata la bacchetta magica della prosperità eterna.
Tutti hanno cercato di cavalcare la tigre. E allora via con le cialtronesche pensioni-baby, con assenteismi lavorativi premiati con promozioni, con “il salario è una variabile indipendente”, come proclamavano sindacati che stavano già per avventurarsi sulla strada delle protezioni corporative.
E poi investimenti assurdi fuori tempo e spese pubbliche scatenate.
La mia generazione ha la responsabilità del fatto che il debito pubblico italiano nel decennio ’80 è passato da un livello accettabile alla mitica soglia del 120 percento del Pil, da cui non si è più mosso.
La mia generazione ha la responsabilità di avere impresso alla società una spinta all’edonismo fine a se stesso, che ci rende tutti incapaci di affrontare i problemi in modo serio.
Ora dobbiamo fare i conti con i disastri che abbiamo sotto gli occhi e rimboccarci le maniche. Certo, capisco che questo ti faccia rabbia: noi ci rimbocchiamo le maniche dopo esserci divertiti per decenni, e tu ti devi rimboccare le maniche senza neanche esserti divertito un po’. Bella fregatura, eh?
Non voglio essere cinico, anzi tutt’altro. Sai, io vedo tutti i giorni i miei figli – che hanno pressappoco la tua età – e i loro amici, e mi rendo dolorosamente conto delle difficoltà in cui si dibattono, del senso di insicurezza che li pervade, della rabbia per diritti ovvii che vengono negati, della frustrazione per una indipendenza mai completa.

L’ospite d’onore lava i piatti
Due generazioni allo specchio

Autori:
Ettore Pietrabissa, Lucio Fava del Piano
Editore: Gangemi Editore

Lucio Fava del Piano
Classe 1973, napoletano emigrante, è un giornalista specializzato in comunicazione e relazioni con la stampa. Formazione economica, già consulente aziendale in una vita precedente, ha lavorato per diverse agenzie di stampa e poi come portavoce del Ministro delle Infrastrutture. Dal 2008 lavora come consulente della comunicazione per gruppi ed esponenti politici, società pubbliche e private, associazioni di categoria. A tempo perso, blogger dedito a far le pulci alle parole della politica.

Ettore Pietrabissa
Classe 1949, è un manager di lungo corso che, in molti anni di professione, ha lavorato in Italia, in paesi europei e negli USA, occupando posizioni di rilievo in gruppi bancari, finanziari e industriali significativi. Fra l’altro, ha fatto parte della direzione finanziaria dell’IRI ed è stato vice direttore generale dell’Associazione Bancaria Italiana e presidente di gruppi di consulenza internazionali. Negli anni ’90 ha rappresentato l’Italia in diversi comitati europei per l’euro. Oggi è direttore generale di una società pubblica che si occupa di finanziamenti al mondo dei beni culturali.

Luoghi di cui abbiamo parlato in questo articolo

Teatro Niccolini