Exodus di Bob Marley. Storie del mondo capovolto

La copertina della riedizione celebrativa di Exodus di Bob Marley

Non solo Sgt. Pepper. La scorsa settimana ha compiuto quarant’anni, era il 3 giugno del 1977, Exodus, uno degli album più memorabili di Bob Marley & The Wailers. Per l’occasione è uscita una ricca riedizione che comprende quattro dischi, fra cui uno con la reinterpretazione dei brani da parte del figlio di Bob, Ziggy Marley, dal titolo Exodus – The Movement Continues.

Chi non ha mai ballato a una festa in spiaggia al ritmo di Jammin’, col suo invito a condividere con le persone che si amano la gioia e la serenità che solo la musica reggae può infondere? Chi non ha mai canticchiato Three Little Birds, inneggiando alla bellezza delle cose semplici? Chi non ha mai provato il piacevole sentimento di attesa di una cotta giovanile decantato in Waiting In Vain? E quale migliore inno all’armonia universale di fronte alle paure e alle angosce del mondo di One Love? Ciò che sorprende, di questo disco, a parte le eccezionali sonorità e la bellezza dei testi, è l’incredibile attualità del messaggio, ben sottolineata anche dal titolo della nuova edizione.

Il “movimento” di cui si parla in Exodus è quello del popolo africano, che Marley, seguendo i dettami della religione rastafariana, definisce il popolo di Jah (che è il termine corrispondente a Dio secondo quel culto), auspicando per esso la fine di una vita di iniquità a Babilonia (l’Occidente) e il ritorno alla terra dei padri (l’Africa). Un panafricanismo non violento e intriso di misticismo che vedeva nell’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié (il cui nome di battesimo era, infatti, Ras Tafari) il leader capace di riunire tutti i neri sparsi nel mondo nel loro continente d’origine, in cui sarebbero vissuti liberi dall’oppressione dell’uomo bianco, dall’ingiustizia e dal razzismo. Il paragone va naturalmente agli Ebrei che, stando alle tradizioni narrate nella Bibbia, dopo essere vissuti in schiavitù in Egitto, furono liberati da Mosè e trovarono la terra promessa in Israele. Nella concezione di Marley, dunque, l’esodo, il movimento, è volontario, e vede nell’Europa e, soprattutto, nelle Americhe il punto di partenza, nell’Africa il punto di arrivo.

Sono passati quarant’anni, e per il popolo africano non c’è stato nessun ritorno alla terra dei padri, che è ben lontana dall’essersi riunita e pacificata come auspicato dai rastafariani, ma è anzi sempre più divisa in sfere d’influenza regolate da interessi internazionali e sempre più preda della violenza di signori della guerra, di una povertà spesso assoluta e di una mancanza di prospettive, delle quali si nutre il terrorismo di matrice religiosa per fare proseliti. Il popolo africano si è però messo effettivamente in movimento. Di segno opposto, rispetto a quanto profetizzato dal re del reggae, è la direzione di questi flussi migratori, anche se simile, se non uguale, ne è la causa: la ricerca di una terra dove vivere. Il movimento del popolo di Jah della contemporaneità, quando non è costretto dalla fuga dalla guerra, è dettato da esigenze economiche drammatiche, e vede come terra promessa proprio quella indicata da Marley come Babilonia, l’Occidente appunto.

Si può dunque parlare di attualità del messaggio di Exodus? Fatte le dovute distinzioni di segno e direzione, sì. Non importa da dove partiamo, né dove siamo diretti. Tutti cerchiamo la felicità e meritiamo una vita migliore.