Cent’anni di solitudine
per trovare la soluzione giusta
in mezzo a tante inutili parole.

Cent'anni di solitudine

Lo sai cos’è l’analessi? O era la prolessi? Tecnicamente è una forma narrativa che anticipa gli avvenimenti ancora da narrare. E se li anticipa non sono mai buone notizie. Lo scrittore te lo dice prima che dopo un po’ dovrai soffrire. Così ci resti meno male. Io l’analessi l’ho capita così.
Un viaggio tra immaginazione e realtà.
Noi che ci autodefiniamo non senza vergogna intellettuali di sinistra abbiamo spesso bisogno di puntualizzare alcuni concetti.
Lo so. Di questi tempi siamo essere inutili, “realmente” inutili. A volte disprezzabili.
Di una sola cosa però andiamo fieri. Non progettiamo mai nessuna bella fuga alla ricerca dei molteplici modi e nodi dell’essere. L’essere ce lo costruiamo. L’essere siamo noi quando pensiamo, scriviamo, parliamo, facciamo, viviamo …
Non abbiamo bisogno di maestri, i nostri di maestri li abbiamo salutati da tanto tempo.
Ricordo quando ho letto Cent’anni di solitudine del mio amico Gabo. Avevo 15 anni e non potevo sapere che dopo io e lui saremmo diventati davvero molto amici. Amici di penna, ovviamente, e la penna era la sua. Ricordo la prima frase letta: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”.
Eccola l’analessi. O era la prolessi.

Di sicuro ero nella grande casa in campagna della mia infanzia, nella veranda quella con il camino, era ottobre, era domenica e faceva freddo. Tanto freddo. Mia madre stava accanto al camino acceso, stava sistemando un vecchio maglione, ma non c’era gioia nel suo sguardo, quindi non c’era gioia nell’aria. Era pensierosa. E allora leggevo leggevo leggevo. E mi immaginavo a Macondo, mica accanto ai pensieri di mia madre. A Macondo!
Poi improvvisamente alzo gli occhi, guardo fuori dalla veranda e vedo il riflesso del me stesso di oggi. Davvero mi assomigliava. Tantissimo. Un po’ appesantito (ci vuole poco, a quindici anni ero un’acciuga impaurita), i capelli ingrigiti (avevo ancora i capelli, una preoccupazione in meno), gli stessi occhiali e quella faccia un po’ antipatica che vuole vedere invece di guardare.
Mi piaceva quell’uomo e come aveva vissuto. Era una bella persona. O almeno lo pensavo io. In quel preciso momento ricordo quella frase che avevo letto tempo prima e che mi aveva portato al libro di Gabo: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.
Avevo quindici anni. Oggi lo posso dire, quella frase ha cambiato la mia vita, mi ha fatto scoprire il mio talento e il destino di quelle parole mi ha regalato un lavoro.
Alzo di nuovo lo sguardo. Quel viso segnato dal tempo passato che assomiglia tanto a me è ancora lì, adesso sorride. Sembra più giovane. Lo guardo meglio. In fondo a quel sorriso (eccola l’analessi) ho visto però una rabbia che non conoscevo.
A quindici anni quella rabbia lì mica la conosci. Sei pieno di dubbi ma la rabbia non esiste, la rabbia è figlia della vita vissuta. Cosa mi incazzo a fare se non vivo? “Fece allora un ultimo sforzo per cercare nel suo cuore il luogo dove gli si erano putrefatti gli affetti, e non poté trovarlo“.
Gabo sa sempre cosa dire, ma in questo caso si sbagliava. Ero arrabbiato e non potevo sapere allora quale potesse essere il motivo. Oggi lo so perché ero arrabbiato. Ce l’avevo con tutte le delusioni che avrei vissuto. Perché mia madre non era felice quel giorno? Mi sentivo in colpa e pensavo di espiare le mie gravi colpe ma leggevo: “Non si muore quando si deve, ma quando si può”,
Ad un certo punto del libro lui fa costruire per lei una camera da letto senza finestre in modo che i pirati dei suoi incubi non avessero da dove entrare. Eccola la salvezza.
Visto che l’analessi (o era la prolessi) può dare al narratore la possibilità di cambiare le cose (ah la retorica del vigliacco raccontatore di storie), allora il narratore le cambia. Insomma, la verità è scritta ma le cose sono cambiate:“Non immaginava che era più facile cominciare una guerra che finirla”. Non lo immaginava lui, figuriamoci io. È anche per questo che bisogna leggere Gabo.