Meglio pensiero unico che unico pensiero

Paese

Fino a oggi, sono stato paziente. Troppo. Tollerante, disponibile all’ascolto, rispettoso degli altri e delle loro idee e sempre pronto a mettere in discussione le mie. Ho cercato un dialogo vero, aperto, libero, costruttivo. E, soprattutto, civile.

Credevo fosse importante. Pensavo che il confronto fosse migliore dello scontro, che scambiarsi delle idee avrebbe reso tutti più ricchi, che la civiltà fosse superiore all’inciviltà, la moralità all’immoralità, l’onestà alla disonestà, l’intelligenza alla stupidità, la cultura all’ignoranza, l’integrazione alla disintegrazione, l’amore all’odio, il bene al male.

Sbagliavo.

Godremo di tutte queste belle cose nell’Aldilà, sempre ammesso che esista. Nell’aldiquà, purtroppo, esse sono irrilevanti.

È vero che Moro aveva ragione quando (20 gennaio 1977) scriveva: “Il bene, anche restando come sbiadito nello sfondo, è più consistente che non appaia, più consistente del male che lo contraddice”. Al di là del fatto, però, che quelle parole sono state scritte in un altro millennio e per un mondo completamente diverso dal nostro, il punto è che la consistenza di cui parla Moro non era, non è e non sarà mai sufficiente a far pendere il piatto della bilancia dalla parte del bene. Non a caso, Moro è stato trucidato. E, come lui, tutti coloro i quali – in ogni angolo di mondo – hanno provato a mettere il bastone tra le ruote al Potere.

Il bene costa ma non paga

Il fatto è che il bene non paga. O meglio: paga, ma solo nell’infinitamente piccolo delle coscienze individuali. E solo per coloro i quali scelgono di ascoltarle, ovviamente. Più la sfera si allarga – coppia, famiglia, amicizie, studio, lavoro, relazioni sociali, convivenza “civile” – più la moneta-bene perde valore. Non appena, poi, si entra in una di quelle sfere nelle quali il Potere non tollera intrusioni, va immediatamente e irrimediabilmente fuori corso.

Non paga, però, costa. Tantissimo. La domanda, allora, è: ha senso continuare a pagare un prezzo così alto per qualcosa che non si può né si potrà mai “consumare”? Possiamo biasimare quanti smettono di farlo?

Tollerare gli intolleranti è pericoloso

Ma c’è di più. Vangeli a parte, la tolleranza verso gli intolleranti si rivela socialmente e politicamente pericolosa. È anche grazie a lei, infatti, che questo presente sta diventando – e non solo qui – ogni giorno più indecente, basso, meschino, volgare, ignobile, invivibile. Un presente ostaggio di una minoranza di cialtroni, i quali, approfittando della civile tolleranza della “maggioranza silenziosa” (troppo silenziosa!), hanno tirato la corda così tanto, che questo Paese è stato trasformato in un’imbarazzante caricatura di democrazia. Una fake democracy nella quale i predatori che sparano i proclami più deliranti e le promesse più assurde fanno il bello e il cattivo tempo. Cattivo, soprattutto, a quanto è dato di vedere.

Andando avanti di questo passo, la corda si spezzerà, con conseguenze che non c’è bisogno di immaginare: sono scritte – vero su bianco – su tutti i libri di Storia: basta leggere.

Il bello (si fa per dire) è che a nessuno sembra importare il fatto che queste promesse non si realizzeranno mai. E non perché più una promessa è grande, più è difficile realizzarla, ma perché i predatori non hanno alcuna intenzione di mantenerle. Quelle promesse, infatti, non nascono per essere mantenute: nascono solo per mantenere chi le fa.

Ogni promessa è debito: pubblico

Nessuno, poi, riflette mai sul fatto che, dato che ogni promessa è debito, più certe promesse sono grandi, più grande è il debito che esse generano. Parlo del debito pubblico, ovviamente: più di 2.800 miliardi, oltre il 140% del PIL. Un rapporto che, secondo il trattato di Maastricht – da noi sottoscritto nel 1992 – non dovrebbe mai superare il 60%. [Senza contare che, a questi 2.800 miliardi, dovremmo aggiungere gli interessi. Tra 2009 e 2022, circa 990 miliardi: più di 70 ogni anno]. Interessi a parte, sulla testa di ognuno dei 58,8 milioni di italiani grava un debito di quasi 49mila euro: 112mila, per ogni famiglia media (2,3 persone). Un debito del quale non si libereranno mai.

E, dato che “pubblico” significa “che riguarda la collettività”, quelle che dovremmo chiamare leadershit – fossero state leadership degne di questo nome, non ci avrebbero trascinati fino a questo punto! – fanno la bella vita a nostre spese. La pacchia di cui parlano – per scatenare e alimentare le guerre tra poveri, in osservanza al millenario motto “divide et impera” – è solo una: la loro.

Leadershit altro che leadership

Non a caso, tra 1952 e 1971 il debito pubblico non ha mai superato il 42% del rapporto con il PIL, toccando, nel 1964, il suo minimo storico: 27%. È negli anni Ottanta della “Milano da bere” – fu allora che le leadership cominciarono a diventare leadershit – che il debito pubblico esplode, complici evasione fiscale e oneri sugli interessi. Nel 1987, il rapporto debito/PIL raggiunge quota 92%. Nel 1994, l’anno della “discesa in campo”, lo troviamo già al 121%. Da allora, non si fermerà più.

Una escalation oscena e incontrollata, che la dice lunga sull’amoralità di leadershit che vivono sulle spalle di lavoratori dipendenti e pensionati (che, da soli, versano più dell’80% del totale dell’Irpef), sostenuti da un esercito di milioni di evasori che, ogni anno, fanno mancare alle casse dello Stato almeno 100 miliardi di euro (3 volte la prossima Manovra). Almeno 100 miliardi, dato che, secondo alcune fonti, sarebbero perlomeno il doppio.

Tutto questo, senza parlare dei 203 miliardi di euro (11,3% del Pil: 6,7 volte la prossima Manovra e quasi un PNNR) che ci costa l’“economia non osservata” (“sommerso” & Co.). Più di 300 miliardi, ai quali si aggiungono i 1.153 miliardi di euro (38 volte la prossima Manovra e quasi 5 volte il PNNR) di tasse dovute, negli ultimi vent’anni (2000-2022), da 23 milioni di brave persone. Tasse mai riscosse, che giacciono nel cosiddetto “magazzino della riscossione”. Miliardi che continueranno ad accumularsi e che lo Stato (cioè noi) non vedrà mai.

L’evasione divora quasi 1 miliardo al giorno

Debito pubblico a parte, il nodo dei nodi, il più grande di tutti e quello che non si scioglierà mai è questo: in Italia, dal 2000 al 2022, sono spariti quasi 8mila miliardi di euro. In media, 355 miliardi l’anno. Quasi un miliardo al giorno.

Due domande: siamo davvero convinti che i responsabili di questa devastante Waterloo della democrazia siano – come ripete, ossessivamente, certa propaganda, additandoli come i responsabili di tutti mali del Paese – “froci”, “lesbiche”, queer, gender fluid, femministe, ambientalisti, pacifisti, “terroni”, immigrati, “negri”, “comunisti” e donne che si permettono, addirittura, di dire “no” ai maschi che rivendicano il millenario diritto di abusare di loro? A nessuno viene il minimo sospetto che possa trattarsi di apparentemente irreprensibili super-furbetti italiani: bianchi, cattolici, tutti casa, famiglia, chiesa e lavoro?

La coperta non è affatto corta

Nonostante questo tsunami fiscale quotidiano, ogni anno, le nostre leadershit, invece di farsi restituire il maltolto (ci siamo mai chiesti quanti milioni di voti perderebbero, se ci provassero?), chiedere scusa e implorare perdono, mandano in tv il “Messia” di turno, a dire che “la coperta è corta” e che non ci sono i soldi per pensioni, sanità, lavoro, istruzione, ricerca scientifica, catastrofe ambientale né per dare un reddito di civiltà e un salario davvero degno di questo nome ai milioni di cittadini e lavoratori onesti che lo meriterebbero.

A proposito di salario, i lavoratori italiani guadagno circa 3.700 euro in meno dei loro colleghi europei (8mila in meno di quelli tedeschi). La retribuzione media lorda di un dipendente (27mila euro) è inferiore del 12% alla media UE (e del 23% a quella tedesca). Non solo: secondo l’Employment Outlook dell’Ocse, l’Italia è l’unico paese europeo nel quale, tra 1990 e 2020, i salari sono diminuiti (-2,9%).

Si potrebbe ironizzare, dicendo che ha ragione chi sostiene che, da noi, il salario minimo non serve. Ce l’abbiamo già: più “minimo” di così! Ma è un tema sul quale nessuno ha il diritto di scherzare.

Tutto questo, senza considerare il fatto che persino il Global attractiveness index di The European House Ambrosetti – 300 professionisti da più di 50 anni al fianco delle imprese italiane – sostiene che “agire sulla situazione salariale è dirimente per il futuro del Paese”. Di più: “sostenere che è inevitabile mantenere gli attuali livelli salariali per garantire la sopravvivenza delle imprese, senza chiedersi se sia accettabile avere interi comparti basati interamente sul semi-sfruttamento, forse non è la strategia più opportuna per un Paese solidaristico”.

Forse.

Per il think tank che organizza il Forum di Cernobbio – di certo non una pericolosa consorteria di extra-parlamentari dell’ultra sinistra – per migliorare attrattività e crescita del Paese, è necessario “un intervento urgente sui salari”, che si tradurrebbe in maggiori consumi, più PIL e più gettito fiscale. Che dire: il fatto che gli esponenti di molte leadershit ci tengano a mostrarsi più realisti del re non è né nuovo né raro. Sorprende, però, scoprire che, in momenti decisivi come questo, essi non sanno nemmeno più interpretare correttamente i desiderata dei sovrani.

Debito pubblico ed evasione fiscale alle stelle; pensionati, lavoratori dipendenti, onesti cittadini, donne e giovani alle stalle. Mi astengo dal commentare. Parlano, i numeri. Anzi: urlano. Ognuno tragga le proprie conclusioni.

I soldi ci sono

Una cosa è certa: i soldi ci sono. Eccome. Evidentemente, le nostre leadershit non hanno intenzione di sprecarli per governare. Probabilmente, li destinano a cose più importanti, approfittando del fatto che nessuno chiede mai loro conto né si ribella al varo di un condono fiscale dopo l’altro: in media, uno ogni due anni. “Un fisco più amico”, lo chiamano. Amico loro. Di certo, non dei milioni di pensionati, lavoratori dipendenti e contribuenti onesti che pagano fino all’ultimo euro. Come si dice: “sempre sia lodato quel fesso che ha pagato!”.

1 italiano su 4 a rischio povertà o esclusione sociale

Nel frattempo, quasi un quarto di italiani (24,4%: 11,3 milioni di persone) – quegli stessi italiani che dovrebbero venire prima degli altri e ai quali le nostre leadershit dichiarano di tenere così tanto – è a rischio povertà o esclusione sociale, mentre il reddito delle famiglie più abbienti è 5,6 volte quello delle famiglie più povere, e il 5% più ricco della popolazione detiene una ricchezza superiore alla “ricchezza” complessiva dell’80% più povero. Una diseguaglianza spaventosa, che cresce ogni giorno di più.

Tutto questo, mentre 300 personalità politiche, economiche e imprenditoriali hanno appena indirizzato ai leader dei Paesi del G20 un appello in favore di un accordo internazionale per tassare le ricchezze estreme, “che permetta di ridurre le disuguaglianze, “generare le risorse necessarie per affrontare le sfide del nostro tempo” ed evitare che “l’esorbitante concentrazione di ricchezza comprometta il nostro futuro comune”. “Esistono – conclude la lettera – tante proposte di tassazione della ricchezza avanzate da parte di alcuni dei più importanti economisti al mondo. L’opinione pubblica è favorevole alla tassazione degli ultra-ricchi. Lo siamo anche noi. Ora manca solo la volontà politica per fare concreti passi in avanti. È ora che la troviate”.

Una posizione, questa, condivisa da un numero sempre crescente di multimiliardari, convinti che, se non si tasseranno in modo efficace le grandi ricchezze, l’economia globale si indebolirà, le istituzioni democratiche andranno incontro al declino e i disordini sociali si aggraveranno fino a diventare ingovernabili. La domanda è: sono stupidi politici, economisti, imprenditori e multimiliardari o coloro i quali non intendono dar loro retta?

Il Paese più bello del mondo?

E il nostro sarebbe il Paese più bello del mondo?
Un Paese nel quale, ogni tre giorni, una donna viene uccisa dal partner o ex-partner? (125 femminicidi nel 2022)
Un Paese nel quale, ogni giorno, 16 donne subiscono violenza sessuale? (5.991 casi nel 2022)
Un Paese nel quale, 6,7 milioni di donne (una su 3 tra 16 e 70 anni), nel corso della loro vita, hanno subito violenza fisica o sessuale?
Un Paese nel quale, ogni giorno, tre persone muoiono sul lavoro? Novanta morti al mese nel 2022 (1.090 in totale), mentre sono già 559 le vittime nei primi 7 mesi di quest’anno.
Un Paese che si trova al 34esimo posto nel “Democracy Index 2022” dell’Economist Intelligence Unit, in quanto “democrazia imperfetta”?

Sopra di noi – sia detto con il massimo rispetto per tutti – Taiwan (10), Costa Rica (17), Cile (19), Corea del Sud (24), Estonia (27) e Botswana (32). Per non parlare di Irlanda (8), Canada (12), Germania (14), Australia (15), Giappone (16), Regno Unito (18), Francia e Spagna (22), Grecia (25), Portogallo (28), Israele (29) e Usa (30).

Un Paese che è al 41esimo posto nel World Press Freedom Index di Reporters Without Borders?

L’Italia – anche qui sia detto con il massimo rispetto per tutti – viene dopo Lituania (7), Estonia (8), Timor Est (10), Lettonia (16), Samoa (19), Namibia (22), Trinidad e Tobago (30), Capo Verde (33). Per non parlare dei primi 6 posti occupati paesi scandinavi (Norvegia: 1, Danimarca: 3, Svezia: 4, Finlandia: 5), Irlanda (2) e Olanda (6), né di Portogallo (9), Nuova Zelanda (13), Canada (15),  Germania (21), Francia (24), Regno Unito (26), Australia (27), Belgio (31), Spagna (36) e Argentina (40).

 E il problema principale di questo bellissimo Paese sarebbero i disperati che naufragano sulle nostre coste, per portarci via donne e lavoro? Ma per favore! Tutti questi numeri ci dicono, con sconcertante e incontrovertibile chiarezza, che a “portarci via” donne e lavoro sono fin troppo bravi i maschi italiani e le loro leadershit.

Dalla culla alla bara

Siamo stati tra le più importanti culle della civiltà e ne stiamo diventando la bara.
Siamo stati la culla della cristianità e ne stiamo diventando la bara.
Siamo stati tra le più importanti culle della filosofia, della poesia, dell’arte, della musica, della letteratura, del cinema, della scienza, persino della politica, e ne stiamo diventando la bara.
Siamo stati la culla del diritto e, da un pezzo, ne siamo diventati la bara.

Non so se siamo mai stati il Paese più bello del mondo, ma una cosa è certa: oggi, non possiamo guardarci allo specchio senza inorridire di come ci siamo ridotti e di come l’abbiamo ridotto. E la cosa più ributtante è che siamo orgogliosi di ciò che siamo diventati. Gonfiamo il petto, tronfi delle nostre nefandezze, come fossero altrettante medaglie, da esibire in pubblico, passeggiando a testa alta – pancia in dentro e petto in fuori – irridendo, insultando e minacciando chiunque abbia l’ardire di ricordarci la verità.

Lo vogliono chiamare “Pensiero unico”, anche se non hanno la minima idea di cosa significhi? Facciano pure. In fondo, per molti versi, il mio pensiero unico lo è davvero. E, comunque: sempre meglio un pensiero unico che un unico pensiero. Soprattutto quando, come in certi casi, non si rivela nient’altro che un immenso, nauseabondo, cumulo di letame.