E se fosse il male a trionfare sempre?

male

Il pericolo del ritorno del nazismo, una donna che indaga un mistero che sembra un incubo, un romanzo incalzante, bellissimo, nero che esplora con le armi della narrativa il fascino immutabile e devastante del male. Giuseppe Cesaro, autore, narratore, giornalista (collabora anche con la redazione di MEMO) dopo L’indifesa torna oggi in libreria con il suo secondo romanzo, 31 aprile. Il male non muore mai, sempre edito da La nave di Teseo.
Siamo a Berlino, nel 2005. La giornalista Vera Stark lavora a un’inchiesta sul gruppo neo-nazi “31 Aprile”, che vuole riprendere il progetto nazista là dove il Führer ha lasciato, suicidandosi nel bunker della Cancelleria (30 aprile 1945). Sul braccio, accanto a svastica e teschio, i componenti del gruppo portano tatuato l’acronimo THE END (“Evil Never Dies”: “Il Male non muore mai”), motto che incarna la loro filosofia. Un vecchio avvocato e un maestro elementare in pensione si mettono in contatto con la giornalista, per aiutarla a ricostruire clima e avvenimenti degli anni del Reich, e metterla sulle tracce di Edna Schein, figlia di un colonnello delle SS, condannato all’impiccagione per crimini contro l’umanità. La Schein, nel frattempo divenuta filantropa, presiede una fondazione chiamata “Nie Wieder” (“Mai più”), che ha restaurato “Villa Redenzione” (una casa di cura che, durante la Seconda Guerra Mondiale, nascondeva un lager nazista), trasformandola in un museo nel quale si mostrano gli orrori che avvenivano in quelle stanze.
C’è una relazione tra “Nie Wieder”, “Villa Redenzione” e “31 Aprile”? Chi sono le persone che vengono barbaramente torturate e uccise, e perché? Chi sono gli autori e i mandanti di questi efferati delitti? È ciò che Vera Stark dovrà scoprire, a rischio della sua stessa vita.
Per gentile concessione dell’autore e del suo editore pubblichiamo il prologo al romanzo. Buona lettura.

di Giuseppe Cesaro

Berlino, 2005

Nudo. Disteso su un piano gelido a un metro e mezzo da terra. Immobile. Braccia lungo le gambe; caviglie, polsi, torace e collo bloccati da cinghie di cuoio così strette che, se solo provasse a muoversi, gli strapperebbero la pelle. Anche la fronte è immobilizzata. Impossibile girare la testa persino di poco. Com’è finito lì? E quando? Pochi minuti? Qualche ora? La sera prima? Tutto quello che ricorda è una coppia incrociata per strada. Ma non saprebbe dire né dove né quando. Era buio. Due ragazze: una bella, sorriso di quelli che non s’incontrano spesso; l’altra scialba, anonima, oscillava nell’equilibrio instabile di chi avrebbe fatto meglio a fermarsi tre o quattro bicchieri prima. “Hai da accendere?” aveva chiesto, mostrando la sigaretta, incapace di trattenere una risata. Il “tu” lo aveva infastidito: non amava quel genere di confidenze. E poi, troppa differenza d’età: trentacinque?, quarant’anni? Forse di più. E poi? Poi niente: un sibilo, un colpo e un dolore lancinante dietro la testa. E ora è lì, inchiodato a quella lastra di ghiaccio, in preda al senso di oppressione di chi si trova a pochi metri da un soffitto che si abbassa sempre di più e, di lì a qualche istante, lo stritolerà. Il silenzio ha la voce dell’odio: darebbe qualunque cosa per non sentirlo.

Sopra la testa, una lampada bassa che emana una luce polverosa come calce. È così vicina e forte che l’uomo riesce a distinguere poco altro: uno scampolo di pavimento – pietra grigia, con un leggero avvallamento verso il centro – e la zoccolatura delle pareti rivestita di maioliche bianche. Il resto è coperto da un verde marcio che un tempo dev’essere stato salvia. Sembra un’officina o il seminterrato di un ospedale. Un ospedale abbandonato chissà da quanto. In fondo, al di là del profilo nodoso dei suoi piedi, il buio. Un buio minaccioso e ostile; oleoso come petrolio e denso come lava. Ondeggia come se respirasse. Il soffio, sordo e cupo, ricorda l’ansito di un grosso animale addormentato. Gli sembra quasi di scorgerlo, oltre il pulviscolo di calce: una specie di orrendo Minotauro, lasciato a guardia di qualcosa che nessuno deve avvicinare. Se si svegliasse, si avventerebbe su di lui e lo sbranerebbe. Che diavolo di posto è? Cosa succede tra quelle pareti che sembrano vive, e trasudano umidità in rivoli grumosi come sangue? Nell’aria, l’eco di lamenti lontani; canti di anime invocano mani pietose che mettano fine ai loro tormenti. Solo un odore riesce a coprire cuoio, muffa, sudore e paura: il sentore amaro delle morti violente. Lo sente ovunque: lacci, pietra, maioliche, vernice, sedia. Persino la luce ne è impregnata. Impossibile evitarlo.

All’improvviso, la lampada scompare. Al suo posto, il viso di un ragazzo. Vent’anni. Ventuno, forse. Non di più.

Efebico, labbra esangui, pupille dilatate, occhi deserti come cave abbandonate. L’uomo non ha mai visto occhi così. Non immaginava nemmeno che esistessero. “Uno scherzo della natura,” pensa. Ma subito gli tornano in mente le parole di suo padre: “La natura non scherza mai.” “Chi sei?” chiede, con una voce che non sembra nemmeno la sua. “Perché sono qui?” L’efebo non risponde. I suoi occhi vitrei fissano senza vedere; la smorfia sulla bocca è linea di confine tra disprezzo e schifo. È così vicino che l’uomo può annusarne il respiro. Alcol, uova marce, kerosene: l’odore del male. Cerca di trattenere il fiato: quella mistura ributtante potrebbe ucciderlo. “Chi sei? Cosa vuoi?” ripete. Il virus della paura lo sta paralizzando: presto raggiungerà anche le corde vocali. Il ragazzo si allontana, la luce torna, l’ansito si fa sempre più vicino. Da un angolo, una sedia vuota fissa l’uomo, indifferente. Ne ha viste così tante che non fa più caso a niente. Oltre la sedia, un’ombra. Ha un profilo di donna, le braccia conserte e la postura imperativa di un vecchio inquisitore che attende che il rogo liberi, finalmente, il mondo dai miasmi venefici di un’altra anima infetta. Provvederà lui stesso a disperderne le ceneri ai quattro venti. Nemmeno il Padre Eterno riuscirà a trovarle e ricomporle. “Chi diavolo seiii?” urla l’uomo alla sedia vuota, al ventre buio della stanza, agli occhi disabitati del ragazzo che non vede più. Non lo vede, ma lo sente. È lì, dietro, da qualche parte. Impossibile immaginare cosa stia facendo, ma la lentezza con cui si muove è straziante. “Perché iooo!” urla ancora, con tutta la forza che gli rimane. “Che cazzo ci faccio quiii?” Per una frazione di secondo, il silenzio è assoluto. Persino il Minotauro ha smesso di ansimare. All’improvviso, la musica esplode con la forza di un’onda di piena che sventra una diga. L’orchestra divampa in un crescendo ossessivo e dal cielo infuocato di un pianeta sconosciuto cominciano a piovere lapilli di parole incomprensibili: “Confutatis… maledictis…” L’uomo fa appena in tempo ad avvertire odore di gas, che il getto azzurrato di una fiamma ossidrica gli lacera il petto. “… flammis acribus addictis…” L’urlo, che si leva più alto di voci e archi, fa ancora più paura della fiamma. Ma la cosa che rende quella paura terrore è il fatto che questa volta riconosce subito la voce che urla: è la sua. È l’Inferno, sì: il suo Inferno. “… flammis acribus addictis…” La fiamma asseconda il ritmo degli archi: un aratro che, con un vomere di fuoco, incide geroglifici di sangue sulla carne viva.

male

“… flammis acribus addictis…”

“Nooooooooo!”

“Coraggio: so che puoi fare di meglio,” sussurrano gli occhi, assaporando il nettare di ogni singola sillaba.

“Voca, voca me, voca me cum benedictis.”

L’ostinato di archi si placa, la musica scivola sottovoce, l’aria sa di acetilene, carne bruciata e urina.

“Maledet… to!” sospira l’uomo, stremato.

“Oro supplex et acclinis, cor contritum quasi cinis, gere curam mei finis.”

Più forte del dolore c’è solo la paura del dolore. Se solo riuscisse a chiudere gli occhi. Basterebbe un attimo: chiudere gli occhi e allontanare i pensieri; cacciarli via, fuori di lì, disperderli in quel mondo dal quale quella follia l’ha strappato. “Senza pensieri si muore meglio,” pensa, nell’unico istante nel quale trova la forza di pensare. Se riuscisse ad abbassare le palpebre, forse il dolore si attenuerebbe e lui riuscirebbe a respirare. Non può. Appena ci prova, punte di aghi arroventati gli bucano la pelle, conficcandosi nei nervi: impossibile resistere a fitte così. Il dolore comincia dagli occhi, il suo aguzzino lo sa. Per questo lo costringe a guardare. Si può fingere di non sapere, non di non vedere.

La musica torna a crescere, impietosa; archi e fiati si fanno sotto, più martellanti di prima. “Confutatis… maledictis…” Il fragore è incontenibile e la fiamma si avventa di nuovo sulle carni dell’uomo, le fauci spalancate pronte a divorarlo. “… flammis acribus addictis…” E più l’odore acre e nauseante della carne bruciata si diffonde e le grida salgono a coprire coro e orchestra, più il sorriso del ragazzo si apre. I suoi occhi riprendono vita, l’incarnato si rianima. Sorride, trasfigurato, nell’estasi di un beato finalmente ammesso al cospetto della potenza di Dio.

“… flammis acribus addictis…”

“Non essere timido,” blandisce, carezzevole, avvicinando la fiamma alla carne con esasperante lentezza. “Sono certo che sai fare di meglio di questi froci dei Berliner. Molto meglio.”

“… flammis acribus addictis…”

Il crescendo sta per raggiungere l’apice. Il ragazzo si volta verso la sedia; l’ombra annuisce, grave e solenne. Lui rivolge gli occhi al cielo e inspira profondamente: non c’è beatitudine più grande. Nulla riesce a procurargli erezioni così. Né lanciarsi in caduta libera, aspettando oltre l’ultimo istante prima di aprire il paracadute, né tuffare avidamente le narici nella coca, né impugnare una mazza da baseball, spedire oltre le tribune la testa delle sue vittime e mimare un giro di campo a braccia alzate, imitando con la voce l’ovazione del pubblico. Nemmeno l’irresistibile lascivia dello sguardo immacolato di Katia. Niente è come incarnare il pollice verso di Dio.

“Il quarto angelo versò la sua coppa sul Sole!” grida, affondando la fiamma nel cuore dell’uomo. “E al Sole fu concesso di bruciare gli uomini con il fuoco! E gli uomini furono bruciati dal gran calore!”

“Oro supplex et acclinis, cor contritum quasi cinis, gere curam mei finis.”

L’uomo urla la fine. È l’ultimo fiato e porta via tutto: paura, dolore, rabbia, incredulità, disperazione. Una fitta, un riflesso, uno spasmo. Il nome di sua madre sta per uscire in un ultimo sbocco di sangue, ma resta impigliato tra i denti e soffoca in un rantolo. Un cristallo di luce balugina nella coscienza: il tempo di immaginare il mondo un’ultima volta, poi più nulla. La luce svanisce. Poi la fiamma. Poi lui.

Il ragazzo chiude le valvole, ripone la pistola sul bancone, scaccia il sudore dalla fronte col dorso della mano; prende fiato, si toglie i guanti, dà un’occhiata compiaciuta alla sua opera e si accascia sulla sedia, esausto: Dio dà tutto ma pretende tutto. “Sapete cosa fare,” sussurra ai ragazzi entrati nella stanza. L’ombra scivola via, il cadavere viene trascinato fuori, la porta si chiude. Il silenzio, finalmente, tace.

male

Giuseppe Cesaro, 31 aprile. Il male non muore mai, La nave di Teseo, 2021.