L’inevitabile precipizio nella lettura di un romanzo di Carrère

Carrère

Paola Ronco, torinese di nascita, genovese di adozione, scrittrice e autrice di romanzi noir, in questo breve scritto dedicato a Yoga ci introduce alla passione per la lettura dei romanzi di Emmanuel Carrère.

di Paola Ronco

Emmanuel Carrère me l’ha fatto conoscere Luigi Bernardi – o meglio, me l’ha imposto proprio, al tempo in cui lavoravo al mio primo romanzo. Mi ha spedito una copia de L’avversario, e quando l’ho sentito per ringraziarlo è stato brusco come al solito: “se davvero vuoi scrivere di omicidi, se vuoi scrivere in generale devi leggerlo subito e anzi, a dirla tutta dovresti averlo già letto”.

È cominciata così, con un libro che mi ha scorticata viva, questa mia passione per uno scrittore che sulla carta non avrebbe niente per attrarmi: troppo egocentrico, troppo borghese, troppo poco preoccupato di costruire una trama. Come in tutte le passioni reali, ogni volta che torno da Carrère si ripete uno schema: mi trovo davanti al suo libro, non so se ho voglia di leggerlo, stavolta non mi frega; lo comincio e dopo due pagine sono perduta, non voglio più smettere, voglio leggere solo romanzi di Carrère per il resto della mia vita, voglio scrivere come lui anche se è impossibile; poi il romanzo prende delle pieghe che non avevo preventivato e inizio a sudare freddo, ecco, lo sapevo che non dovevo leggerlo – oppure, anche, a un certo punto la storia iniziale che mi aveva rapita scompare come un fiume carsico e l’ego di Carrère si staglia in tutta la sua ipertrofia in ogni riga, irritandomi in maniera temporanea ma potente; poi niente, poi alla fine il fiume ricompare, io ne vengo travolta e leggo senza respirare, senza fermarmi, soffrendo e godendo al pensiero che nel mondo ci sia uno che scrive in questa maniera, raccontando il suo personaggio con una sincerità autolesionista che suonerebbe orrenda in chiunque altro che non fosse lui.

Yoga ti intorta con la premessa piaciona di essere un libro che racconta di Patanjali e di ritiri Vipassana, di arti marziali e di meditazione, poi ti molla un ceffone a piene mani e ti porta in mezzo alla realtà. Il sangue vero, la terrificante nudità della sofferenza mentale, il dolore eterno di chi attraversa il mondo per poter vivere, l’essenza della passione erotica e la polonaise Eroica di Chopin: come sempre accade con Carrère, se mi raccontassero il libro prima di leggere direi solamente che non mi interessa o che non voglio sapere.

In effetti Carrère vede un mondo completamente diverso da quello che vedo io; il suo punto di vista è quello di un uomo privilegiato e benestante, che pur vedendo la sofferenza non concepisce in nessun modo la possibilità di un conflitto. L’ingiustizia sociale è data per assodata, come il cielo e le stelle, qualcosa di immutabile, e il dolore è singolare. Dove una come me vede i danni del capitalismo e le radici del malessere individuale, uno come Carrère sorvola, pure se cita Lenin, è evidente che non gli interessa – e infatti la parte greca è la più debole del libro. Ma Carrère è un’altra cosa, Carrère non è capace di espirare ma sa soltanto inspirare, prendere, assorbire, conquistare, Carrère è un uomo occidentale che non sa smettere di intellettualizzare qualsiasi cosa e per questo cerca il silenzio e una pace nello yoga, nella meditazione e nelle arti marziali come tante di noi, Carrère scrive i suoi libri con un dito solo e si macera al pensiero di come avrebbe potuto fare con tutte e dieci le dita. Carrère vorrebbe essere “un uomo buono, un uomo attento ai suoi simili, un uomo affidabile”, e invece è “narcisista, instabile e ossessionato dall’idea di essere un grande scrittore”. È quello che è, e sa di poter essere detestato oppure amato perdutamente – spesso contemporaneamente.

Non c’è niente di più lontano da me di un tipo così e dei suoi libri. Eppure, ogni volta, mi precipita nelle sue pagine e mi lascia lì per giorni a pensarci sopra, a chiedermi se non sia davvero solo un grande inganno, e insieme se questa cosa sia davvero importante, in fin dei conti.

Carrère

CarrèrePaola Ronco è nata a Torino nel 1976 e vive a Genova. Oltre a diversi racconti per antologie e riviste, ha pubblicato i romanzi Corpi estranei (PerdisaPop, 2009), La luce che illumina il mondo (Indiana, 2013), e insieme ad Antonio Paolacci è autrice della serie dedicata al personaggio di Paolo Nigra (Nuvole barocche, Piemme, 2019, vincitore dei premi Nebbiagialla e Tolfa Gialli e Noir, e pubblicato in Francia per Rivages Noir; Il punto di vista di Dio, Piemme, 2020; Tutto come ieri, Piemme 2022).