Abbiamo ancora bisogno di Fabrizio De André ed Edoardo Bennato. Tanto bisogno

Edoardo Bennato

Sono andato al concerto di Cristiano De André, poi a quello di Edoardo Bennato, entrambi in cartellone nella suggestiva cornice di Piazza Europa alla Spezia. Di fronte il palco, alle spalle il mare. So di dire qualcosa di stravagante, ma per me sono state due prime volte. Le direzioni delle mie passioni musicali hanno un codice genetico dove ovviamente le canzoni di Faber e Bennato occupano un luogo privilegiato, ma sino ad oggi avevo visto solo Fabrizio De André dal vivo nella sua ultima tournée, quella di Anime Salve, dove Cristiano esercitava il suo talento da polistrumentista virtuoso. E non avevo mai incrociato Edoardo Bennato.

Nel primo caso non avevo grandi aspettative, sono sincero. Invece ho scoperto un grandissimo musicista capace di interpretare la poesia del padre dando nuova vita, entusiasmo ed energia alle sue canzoni. Ritmo, intensità, gioia, tanti giovani che cantano Amico Fragile, Il Pescatore e Bocca di Rosa, tante mani che si alzano e battono il tempo, qualche occhio lucido perché spesso il tempo non passa invano. E una certezza. Venticinque anni dopo abbiamo ancora bisogno di Fabrizio De André. Tanto bisogno.

Una piacevole sorpresa con la voglia di tornarlo a sentire presto. Cristiano sa di essere il figlio, e fare il figlio, quando le eredità sono così importanti, spesso è complicato. Forse nel corso degli anni è stato un peso troppo grande da portare, ma la sua interpretazione oggi sfiora il sublime. Rispetta l’inciso del canto, usa una voce che non vuole mai imitare l’originale e scatena una creatività sorprendente nella scrittura delle parti musicali. Voleva andare oltre la PFM e credo ci sia riuscito. Ma soprattutto nelle sue interpretazioni si sente la poesia di Fabrizio. Suona la chitarra, talvolta riesce persino a cantare suonando il violino sfidando le leggi della gravità e alla fine del concerto, e solo alla fine per una volta sola, si siede al pianoforte per tirare fuori dal profondo della sua anima La Canzone dell’Amore Perduto, che racconta di quando l’amore che strappa i capelli è perduto ormai e non resta che qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza. E mentre lui “vive” cantando la poesia universale di quelle parole che passano dallo smarrimento alla speranza pensi che in fondo quella canzone ha gli stessi anni della tua vita. Perché le canzoni, quelle vere, non smettono mai di raccontare una storia. E spesso raccontano la tua.

La cosa che all’inizio mi stupisce di più di Edoardo Bennato è l’età. Non ci posso credere, non può essere vero invece eccolo li, forever young come canta Bob Dylan, un ragazzo di Bagnoli nato il 23 luglio del 1946. Le aspettative per lui invece erano molto alte. Come mai se conosco quasi tutte le sue canzoni a memoria non l’ho mai visto in concerto? Sillabavo nella mia memoria gli incroci mancati del destino mentre facevo la coda per entrare. Eravamo in tanti. Devo dire che le aspettative lui le ha rispettate. E è andato persino oltre. All’inizio sale da solo sul palco con la chitarra, l’armonica, gli immancabili occhiali neri, il sorriso da gatto arruffato, la t-shirt con il numero 55 stampato sul petto e si toglie subito il pensiero. Parte con Sono Solo Canzonette e Il Gatto e la Volpe. Il pubblico si alza in piedi, canta, segue il ritmo con le mani. Sembra l’inizio della festa, il sabato del villaggio del karaoke annunciato. Ma non sarà così. Subito dopo sale la band e scopri che quello di Bennato non è un concerto celebrativo. Anzi capisci che non è mai stato così, è un artista puro, incapace di essere uguale a sé stesso, un burattino senza fili all’eterna ricerca del suono più profondo del folk, del rock e del blues. Lui è un musicista, prima ancora di essere Bennato il cantastorie di Mangiafuoco e di Capitan Uncino. Il tributo alla memoria non è mai rivolto alla nostra gioventù, ma rende omaggio all’origine della sua musica. Le chitarre elettriche, il basso e la batteria si inseguono raccontando L’isola che non c’è e fotografando Nisida che è un’isola e nessuno lo sa. La musica diventa ossessiva, tipica dell’alienazione del prog rock all’italiana degli anni 70, quello degli Area, della PFM e del Banco del Mutuo Soccorso. A metà concerto le parole si prendono una pausa e inizia un dialogo lunghissimo tra chitarre, a tratti drammatico, a tratti sinfonico, che non si vergogna di citare Rossini e i Pink Floyd perché i muri, alla fine, vanno sempre abbattuti. Eccolo il Bennato che non ti aspetti, che ti sorprende, che non cerca la strada facile dell’autocelebrazione. Una volta ha registrato un disco di rhythm’n’blues interamente cantato in napoletano con lo pseudonimo di Joe Sarnataro. Non ha ancora finito di cercare il vero nome della sua musica. Perché anche di Edoardo Bennato abbiamo bisogno. Tanto bisogno.

Due concerti che alla fine hanno riacceso la memoria di due vecchie canzoni dimenticate e di alcuni versi che, mai come oggi, raccontano il nostro presente.
La prima, Lo Zio Fantastico:
E poi arrivò la guerra che tutti i sogni porta via
la guerra in ogni lettera in ogni fotografia
E poi arrivò la guerra che tutti i sogni porta via
la guerra quella vera quella senza ironia

La seconda, La Canzone del Maggio:
E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.

No, credetemi, non sono solo canzonette.