La perfezione imperfetta della memoria scritta. Benvenuti al Piccolo Museo del Diario.

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“Spero che ti potrò confidare tutto, come non ho mai potuto fare con nessuno, e spero che sarai per me un gran sostegno”. Così inizia il celeberrimo diario di Anne Frank e chissà quanti di noi si sono immedesimati in questa dedica al diario, a volte unico amico in grado di sostenere le nostre gioie e i nostri piccoli grandi dolori.

Cos’è che rende unico e prezioso un diario? Innanzitutto la sua assoluta democraticità: tutti possiamo scriverne uno, liberi dal giudizio della forma (anche se la forma è sostanza) e soprattutto dal giudizio dei lettori. Si scrive per fissare attimi e memorie altrimenti perdute. Si scrivono le parole non dette a voce o per lettera. Si scrive per dire la verità, almeno a noi stessi. Si scrive per lasciare una traccia del nostro passaggio. Si scrive perché la scrittura è una forma di libertà.

E tutto quello che abbiamo scritto, che fine fa?

Perché se custodisci qualcosa, anche inconsapevolmente, te ne prendi cura. Come fa il Piccolo Museo del Diario a Pieve Santo Stefano in provincia di Arezzo.

Era il 1984 quando Saverio Tutino, giornalista, cominciava a raccogliere nell’Archivio dei diari queste autobiografie preziose sennò dimenticate. Ed è a lui, scomparso nel 2011, che il Piccolo Museo inaugurato nel 2013 è dedicato.

Attraverso un percorso multisensoriale e interattivo, questo prezioso luogo di trasmissione delle memorie accoglie il visitatore in un’esperienza immersiva di suoni, voci e parole, lungo i corridoi letteralmente costituiti da teche e cassetti contenenti lettere, faldoni, piccoli grandi frammenti di vita.

Attraverso le scritture di persone comuni che hanno raccontato la loro storia per creare un collage della storia d’Italia fatta di memorie private e personali che sono diventate storie collettive e universali, affiancandosi così alla Storia con la S maiuscola e intrecciandosi ad essa a tal punto da far parlare di “storia scritta dal basso”. Un laboratorio di Public History a tutti gli effetti, che restituisce l’identità autentica del nostro Paese in un’elegia del quotidiano al di là di ogni retorica storiografica.

Oltre 9000 diari escono dalle soffitte e dai cassetti e rivivono, raccontate dalle voci intense di chi usa la voce per dire la verità delle storie. Le voci, tra gli altri, di Maya Sansa, Marco Paolini, Marco Baliani, organizzate lungo un percorso messo a punto dallo studio milanese dotdotdot, che ha curato l’allestimento museografico e tecnologico multimediale. Un percorso in divenire perché ogni anno il Museo si arricchisce di nuove acquisizioni, grazie alla possibilità di donare il proprio diario alla Fondazione Archivio Diaristico Nazionale.

Attivare la memoria come fulcro per consolidare la propria identità collettiva. Non a caso il Museo fa parte dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei che raccoglie una rete di piccole realtà con lo scopo di promuovere esperienze nelle quali il rapporto con il visitatore e la propria comunità di riferimento si trasformano in valore aggiunto.

Questa macchina del tempo genuina si snoda in uno spazio che è piccolo non solo nel nome: quattro sale espositive per 80 metri quadrati ricavati in un palazzo antico scampato alle mine tedesche nel 1944. Un viaggio intimo e raccolto alla scoperta della necessità del raccontarsi. Sensazioni liete e tristi, generi, epoche e argomenti si avvicendano nel corso della visita e si finisce per immedesimarsi in quei racconti poi non così distanti da noi. Sono i nostri nonni, un tempo giovani, spesso autodidatti. Come Clelia che, finita la carta, scrive febbrilmente, e tuttavia con metodo, l’addio all’amato Anteo sul lenzuolo più bello del suo corredo perché “le lenzuola non le posso più consumare col marito e allora ho pensato di adoperarle per scrivere”. O come il cantoniere Vincenzo, che con la sua macchina da scrivere in un fiume in piena rinuncia alla punteggiatura.

E chissà ancora quante storie bussano in attesa di essere lette “nel tentativo tenace di opporre resistenza alla dimenticanza, in una battaglia impari tra poche migliaia di sopravvissuti contro milioni di esistenze di cui non sapremo mai nulla“. Paola Nepi ha tenuto un diario dal 1945 al 2016. Eccone un brano: “Per continuare a parlare col mio io profondo scrivo con un solo dito ed un mouse speciale e l’intesa fra il mio dito e l’unico tasto che riesco a pigiare ancora va, non so fino a quando ma non ci penso. Confesso però che ora sono stanca, sfinita, non depressa, non triste. Vorrei però andarmene serenamente, quasi in allegrezza non più esistere e, datevi pace, la vita nel bene e nel male riserva sempre qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio e qualcosa di blu”. Ecco perché si scrive.