Business Roundtable:
i finanzieri
della tavola rotonda

Edutainment: neologismo inglese che nasce dalla fusione di educational (educativo) e entertainment (divertimento). Come imparare divertendosi. Da qualche anno è stato appurato che affrontare gli argomenti più diversi in modo giocoso consenta il raggiungimento di migliori risultati sia per la comprensione dei contenuti sia per lo sviluppo di attitudini “proattive”. Diego Parassole, attore comico ed esperto di formazione e neuroscienze applicate, nonché amico di MEMO, ci racconta così il tema della sostenibilità, tra “dichiarazioni di intenti”, contraddizioni e paradossi.
di Diego Parassole
È successo. Così, quasi all’improvviso. Dopo anni di totale disinteresse verso tutto quello che non può essere fonte di business, alcune delle più grandi corporate americane si sono riunite e hanno dato vita alla dichiarazione di principi della Business Roundtable, potentissima associazione del mondo finanziario americano.
Ne fanno parte Jamie Dimon (JP Morgan),Tim Cook (Apple) Jeff Bezos (Amazon), Bryan Moynihan (Bank of America), Mary Barra (General Motor) e molti altri. Così, tanto per darvi l’idea del calibro dei personaggi dell’associazione.
Io avevo provato a iscrivermi, ma la quota associativa era troppo alta. E purtroppo non era ammesso il pagamento rateale.
I 181 amministratori delegati firmatari della carta “si impegnano a guidare le proprie aziende a beneficio di tutte le parti interessate – clienti, dipendenti, fornitori, comunità e azionisti. (https://www.businessroundtable.org/business-roundtable-redefines-the-purpose-of-a-corporation-to-promote-an-economy-that-serves-all-americans).
Insomma più rispetto per tutti, compresi i lavoratori, e perché no, anche per l’ambiente.
Immagino che Milton Friedman, economista della scuola di Chicago così attiva nel dar vita a quello che gli esperti chiamano il neoliberismo, si sia rigirato nella tomba. Friedman è stato un fautore estremo del libero mercato. Di lui un mio amico economista (che per ovvie ragioni non citerò) dice spesso: “Sarebbe stato capace di vendere la propria madre. E se non l’ha fatto non è stato per scrupolo morale: solo, la madre, non aveva raggiunto sul mercato una quotazione adeguata”.
Per anni gli unici a parlare di ambiente sono stati, appunto, gli ambientalisti, quelli che potremmo definire “Gli addetti ai lavori”. Ai convegni vedevi sempre le stesse facce e a volte i relatori erano più dei partecipanti. Io a volte interpretavo il doppio ruolo relatore-partecipante: facevo un intervento e subito dopo mi facevo delle domande a cui rispondevo dandomi ragione da solo, dimostrando così di essere d’accordo con me stesso (non sempre: qualche volta litigavo con me stesso per alimentare il dibattito)
Ora queste tematiche stanno diventando trendy. Così la Roundtable annunciato qualche giorno fa: “Non solo utili, più responsabilità sociale” (titolo del Sole 24 Ore, articolo di Marco Valsania del 19 agosto qui il link: https://www.ilsole24ore.com/art/svolta-corporate-america-basta-la-supremazia-profitto-AC406Ff).
Il problema sarà capire quanto di queste “dichiarazioni d’intenti” diventeranno realtà. Ad esempio: Jeff Bezos (Amazon) firma la “carta etica” sulla responsabilità sociale e nel frattempo il Guardian, il 20 agosto, pubblica un articolo: “Amazon sotto tiro per nuovi imballaggi che non possono essere riciclati”. (https://www.theguardian.com/technology/2019/aug/20/amazon-under-fire-for-new-packaging-that-cant-be-recycled). Una svista di Bezos? O forse Jeff ormai è così ricco che può permettersi più personalità: una ecologista con cui fare le dichiarazioni e una anti-ecologista che pensa solo al fatturato?
E qui sorge un altro dubbio: la carta etica firmata da Bezos sarà stata almeno stata prodotta con carta riciclata?
Battute a parte, sarebbe importante che alle dichiarazioni seguissero i comportamenti. Ma – ne sono certo – dopo che Bezos avrà letto questa mia intervista si ravvederà!
In ogni caso il livello di attenzione ai temi della sostenibilità si alza – non quanto la temperatura media terrestre per effetto della crisi climatica – ma si alza. Qualche giorno fa 32 grandi aziende del mondo della moda hanno firmato il “Fashion pact” per la difesa dell’ambiente. Potremmo dire che la sostenibilità “sta diventando di MODA”! (https://www.ilsole24ore.com/art/sostenibilita-32-aziende-sigliano-fashion-pact-la-difesa-dell-ambiente-ACl1Stf).
L’importante come sempre è che poi alle dichiarazioni segua la pratica. E lo è ancora di più attivarsi subito. Cominciando a rendere più sostenibili le proprie produzioni. Già qualche anno fa Greenpeace aveva lanciato la sua campagna Detox, che ha spinto molte aziende del settore dell’abbigliamento ad eliminare prodotti altamente dannosi per l’ambiente: penso per esempio ai PFC, utilizzati nei trattamenti idrorepellenti dei tessuti. (Cito questi dati per sembrare un artista colto e impegnato…). Certo, essere più sostenibili vorrà dire, in molti casi, modificare i processi produttivi. E forse sacrificare un po’ degli utili. Ma è importante che ciascuno sia protagonista – ribadisco – da subito, del cambiamento. E l’industria della moda può fare molto.
Cito ad esempio da Micron, la rivista dell’Arpa (Umbria) un articolo di Romualdo Gianoli: https://www.rivistamicron.it/temi/il-viaggio-delle-microplastiche-nel-golfo-di-napoli/ “…Una ricerca dell’Istituto per i Polimeri Compositi e Biomateriali del CNR di Pozzuoli (NA) … ha svelato quale sarebbe la principale fonte di inquinamento da microplastiche primarie dei mari. La conclusione cui è giunta la ricerca, pubblicata su Nature Scientific Reports, è che all’origine del problema ci sarebbero le microfibre sintetiche di cui sono fatti molti dei capi d’abbigliamento comunemente usati, che vengono rilasciate durante i lavaggi domestici”. Insomma per essere sostenibili abbiamo davanti 3 strade: o il settore dell’abbigliamento riuscirà a modificare le proprie modalità produttive o dovremo smettere di lavare i nostri vestiti… o addirittura dovremo smettere di vestirci. A meno che qualcuno, opportunamente “sponsorizzato” da chi ha molti interessi in gioco, non riesca a dimostrare che le microplastiche nel cibo fanno bene.
Perché come dice Milton Freedman: “le vie del liberismo sono infinite”. A quel punto le industrie alimentari potranno venderci cibi sempre più sofisticati. A cui aggiungeranno la scritta sull’etichetta: “Finalmente con aggiunta di microplastiche!”. Cosa, questa, che renderà quel cibo così salutare molto più costoso.
Insomma è importante agire con coerenza e in fretta. Quindi ben vengano la carta della Business Roundtable, la dichiarazione d’intenti dell’industria della moda e tutto quello che porterà il mondo in una direzione di maggior sostenibilità: lo stato dell’ecosistema è tutt’altro che roseo. E se per caso fosse roseo, sappiate che lo sarebbe solo perché qualcuno ci ha rovesciato dentro dei coloranti. Probabilmente non atossici.
Infatti – lo dico giusto così per fare un po’ di terrorismo mediatico – secondo uno studio australiano (https://www.ilsole24ore.com/art/cosi-2050-civilta-umana-collassera-il-climate-change-ACxDIjU?fromSearch) rischiamo – se non conteniamo subito quella che ormai sempre più spesso viene definita la “crisi climatica” – di arrivare al tracollo. Qualcuno è preoccupato per quella che potrebbe essere la fine dell’umanità. Ma il problema più grave è un altro: io mi riferisco soprattutto alle grandi Corporate. Pensa come si incazza Bezos quando scopre che i suoi clienti si sono estinti e non trova più nessuno a cui vendere! Non fatelo sapere a Milton Freedman.
Insomma bisogna cambiare. Subito. Adesso. Anzi: ieri era meglio!