Per un nuovo discorso pubblico sulla città e sull’abitare

L’emergenza per il Covid-19 ci ha costretti a riflettere sugli assetti delle nostre città. Le misure necessarie al contenimento del contagio hanno imposto una gestione del vivere urbano molto limitata e limitante, che si è rivelata però un’occasione per ragionare su come sono cresciute le città e su come sono organizzate. Soprattutto la pandemia ha messo in luce la necessità di tornare a pensare le città, accogliendo ora anche i piani per la riduzione del rischio tra gli elementi che ne devono guidare il riassetto. Abbiamo infatti visto che la pandemia incide sulla mobilità, sulle attività economiche, sui rapporti e sull’organizzazione del lavoro, sulle opportunità educative, formative e di socializzazione, sulle relazioni sociali, sulla vita culturale, sull’organizzazione degli spazi pubblici, sulla presenza dei servizi a livello territoriale. Ovvero sulla definizione degli spazi cittadini, sulla loro agibilità democratica e sulla loro pianificazione strategica. Ne parliamo con Sonia Paone, docente di Sociologia urbana presso l’Università di Pisa.
L’emergenza sanitaria sembra essere l’inatteso che svela il conosciuto. Quali limiti del vivere urbano e dell’urbanistica sono stati posti in luce dal Covid-19?
Farei una premessa su alcune caratteristiche che oggi hanno le città. Viviamo in una epoca di grande protagonismo urbano visto che dall’inizio del nuovo millennio e per la prima volta nella storia della umanità la maggior parte della popolazione mondiale vive nelle città. Questo traguardo è stato raggiunto grazie alla recente crescita dei tassi di urbanizzazione in alcuni continenti quali l’Asia, l’America Latina e l’Africa, dove oggi si collocano le più grandi città del mondo. Tuttavia, in queste aree le città si sono sviluppate e stanno continuando a espandersi grazie ad una crescita informale e non pianificata, e questo significa che mancano le infrastrutture di base, i servizi igienico-sanitari, l’acqua potabile, sono aree densamente popolate e nelle quali la malattia è già presente per le difficili condizioni dell’abitare quotidiano. In questi contesti la pandemia desta fortissimi preoccupazioni visto che è impossibile il distanziamento sociale e il rispetto delle condizioni igieniche minime per fronteggiare una emergenza sanitaria. Inoltre, l’informalità non riguarda solo l’abitare, ma anche il circuito della sopravvivenza, poiché gli abitanti delle aree informali sono impegnati in tutta una serie di attività scarsamente remunerative e soprattutto non tutelate, e sono proprio queste tipologie di attività che maggiormente hanno risentito delle misure di lockdown e della crisi economica aperta dalla pandemia. Per cui nelle aree informali il problema non è solo la diffusione incontrollata del virus, ma anche il dramma dell’aumento della povertà.
Anche alle nostre latitudini la pandemia ha evidenziato il peso delle disuguaglianze. Per esempio, in Francia i tassi di diffusione della malattia sono molto più elevati nelle aree periferiche e più povere delle città, e lo stesso succede negli Stati Uniti, dove il virus ha colpito in maniera molto forte i ghetti abitati dalle comunità afro-americane, zone abbandonate in cui mancano servizi, compresi quelli medici, e dove si evidenzia una maggiore incidenza di malattie predisponenti come il diabete o l’obesità. Le realtà che sono diseguali sul piano spaziale, perché periferiche e segregate, stanno rivelando una vulnerabilità molto maggiore alla diffusione del virus.
Nel nostro territorio, dove pure non esistono fratture così forti, sono emerse una serie di questioni riconducibili alle disuguaglianze su base spaziale. Guardiamo ad esempio alla qualità dell’abitare. Pensiamo soltanto alla minore disponibilità di metri quadri che ha reso in alcuni quartieri difficile il distanziamento sociale, il lavorare da casa e lo stesso confinamento. Il ricorso allo smart working non è una soluzione accessibile a tutti. Anzi, si è visto che questa è una modalità adeguata soprattutto a chi svolge professioni più qualificate e dispone dello spazio e dei mezzi per praticarla. Anche per i bambini e gli studenti dei quartieri popolari è stato più difficile, ad esempio, seguire le lezioni on line.
Una delle conseguenze dell’emergenza è stata la riscoperta del quartiere, dei rapporti di vicinato, del commercio di prossimità, delle piazze e delle piste ciclabili. Ma non tutti i quartieri delle nostre città sono stati pensati così.
Molti quartieri periferici sono luoghi caratterizzati dall’assenza e dalla mancanza. La parola “periferia”, che etimologicamente significa quello che ruota attorno al centro, progressivamente ha assunto in sé l’idea di un abitare inferiore, proprio perché mancano gli spazi con valenze collettive e spesso i servizi essenziali, da quelli sociali a quelli sanitari. Ci sono quartieri che sono solo costituiti solo da alloggi, spesso in condizioni degradate. Ma questo significa anche che c’è un ampio margine di intervento. Il virus può essere l’occasione per mettere in evidenza le contraddizioni dell’urbano e per riaffermare un discorso che cerchi di ricomporre queste fratture.
La sindaca di Parigi Anne Hidalgo ha incentrato la propria campagna elettorale sulla città dei 15 minuti: 15 minuti per andare al lavoro, a scuola, a fare la spesa, per partecipare alla vita socio-culturale della comunità. È una formula interessante?
Sicuramente è una formula che rimette in gioco la necessità di un discorso pubblico sulla città e sull’abitare, che è venuto meno da molto tempo. L’architettura moderna, quella del ‘900, partiva dalla casa e da qui sviluppava un ragionamento su come doveva essere la città, con tutti i limiti che questo approccio ha comunque avuto. Con il postmodernismo si sono privilegiati altri elementi: l’estetica e la magnificenza, i grandi interventi di creazione di spazi che esaltano soprattutto il capitale simbolico, ma sono state trascurate alcune domande fondamentali, prima fra tutte che cosa è una città rispetto ai bisogni di chi la vive. Oggi ci ritroviamo obbligati a ripensare la città. A partire dalle relazioni che possono avvenire in un quartiere, che deve risultare pronto a sostenere i bisogni anche in caso di riduzione delle capacità di movimento. L’architettura sociale potrebbe ora aiutare nell’individuare nuove soluzioni al servizio della collettività. Negli ultimi decenni si sono inoltre imposti modelli insediativi ad alto consumo di suolo e a bassa densità abitativa, la cosiddetta diffusione urbana o dispersione urbana. Pezzi di funzioni urbane, quindi aree residenziali, produttive o commerciali, si sono disposte attorno ai nuclei storici delle città senza divenire completamente autonomi da queste ultime. Ora questo tipo di modello mostra la sua inefficienza, e la ipotesi come quella della Hidalgo ripropongono l’idea di una città compatta che sia in grado di evitare la dispersione, oltre che colmare il divario in termini di dotazione di spazi pubblici e servizi collettivi fra le aree centrali e quelle periferiche.
Un’altra risposta potrebbe essere una spinta verso un ritorno ai borghi, magari aggregati tra loro in una ottica di regione urbana.
Questo tipo di posizione non mi convince molto, se le città non funzionano questo non significa che bisogna abbandonarle, anzi abbiamo una occasione di ripensare i modi di vivere la città e su questo possiamo ragionare. Le proposte di ritorno nei borghi mi sembrano elitarie: chi può permettersi di abbandonare la città e rifugiarsi nell’idillio della campagna, chi può permettersi lo smart working? Sicuramente non tutti e forse solo pochi. E poi se i borghi sono stati abbandonati un motivo ci sarà, ed è perché minori sono le opportunità lavorative, quelle relazionali, scarsi o inesistenti i servizi, pochi gli spazi culturali, difficile la quotidianità visto che spesso per lavorare o per andare a scuola bisogna compiere lunghi tragitti. Più che inseguire queste idee romantiche e poco concrete, credo sia opportuno concentrarsi sulle cose da migliorare, su come restituire al pubblico spazi abbandonati e vuoti che sono presenti nella città, che potrebbero diventare nuovi polmoni verdi o spazi in cui immaginare attività all’aperto per i bambini o per gli studenti, ad esempio. Bisognerebbe ripensare, l’abitare, i servizi e la socialità nelle città.
Quali sono le ipotesi di sviluppo che in un paese come il nostro, che è già a mobilità sociale zero, possono invece scongiurare il pericolo di un accrescimento delle disuguaglianze?
Sicuramente nel ripartire bisognerà ridare centralità alla questione abitativa, in un contesto in cui meno possibili sono gli spostamenti e l’abitazione si fa mondo, nel senso che è investita da un insieme di processi sociali, il patrimonio abitativo deve essere in grado di accogliere questa nuova dimensione domestica. E sicuramente il nostro paese non è pronto, vista la eterogeneità delle situazioni abitative, molti saranno gli investimenti che andranno fatti sia dal punto di vista urbanistico che da quello edilizio. Sarà necessario ad esempio ritornare sui temi della casa pubblica. Oggi le case popolari sono solo una testimonianza di un tempo passato, quando sarebbe invece di cruciale importanza una progettazione nuova in questo ambito. Altri temi importanti sono quelli del lavoro, del welfare, della cultura, e della salute ovviamente. E poi mi piacerebbe che si aprisse un dibattito sullo spazio pubblico.
L’esperienza drammatica della pandemia ci ha dunque consegnato un patrimonio di riflessioni.
Nelle settimane in cui forzatamente siamo stati costretti a rimanere in casa e abbiamo reclamato il diritto a uscire, a vivere la città e i suoi spazi e abbiamo provato a riprodurre spazi pubblici su scala minimale cantando e suonando sui balconi e nei cortili, probabilmente abbiamo capito – essendone privati- qual è il valore della città, che come diceva Henri Lefebvre, è vita aperta e collettiva. Ora che abbiamo la possibilità di rivivere le città, di attraversarle, di produrre nuove relazioni, sarebbe importante riflettere su come negli ultimi decenni abbiamo trasformato lo spazio pubblico. Su come abbiamo provato a distruggerlo e umiliarlo, mercificandolo, riempiendolo di telecamere, di panchine su cui non ci si può sdraiare, di barre, recinti, impedendone l’uso ad artisti di strada, allontanando poveri, mendicanti, migranti. Gli strumenti come il Daspo urbano e le zone rosse che prevedevano divieti di ingresso e stazionamento su specifici spazi pubblici urbani sono stati utilizzati in molte nostre città fra l’indifferenza generale e in nome del decoro, artificio lessicale dietro il quale si nasconde il fastidio che provoca la presenza e la visibilità dei poveri nelle piazze e nelle strade. Credo che ripensare lo spazio pubblico, renderlo plurale e accogliente, significhi mettere in primo piano i valori della solidarietà e della coesione sociale, oggi quanto mai necessari.
Un senso di possibilità nuova può investire le città proprio a partire da una riflessione sullo spazio pubblico, inteso come luogo in cui si esprimono le istanze collettive e i valori di una società. Abbiamo una grande opportunità, non sprechiamola…