Assisi e Davos. Dove la sostenibilità decide il suo futuro

Si parte dalla consapevolezza della “attuale grave crisi climatica ed ecologica”, per dirla con le parole di Papa Francesco. E poi si decide se andare a Davos oppure ad Assisi. Due piccole città, due grandi capitali del pensiero e dell’azione. L’emergenza è tale che mai come adesso è importante la strada che si sceglie.
Nel paese sulle Alpi svizzere, chiamate da Klaus Schwab, professore ed economista tedesco, si riuniscono ormai da cinquant’anni le più potenti forze economiche, finanziarie e politiche del mondo. Quest’anno, gli oltre 3.000 leader che partecipano, fra cui 53 capi di Stato e di governo, provenienti da 117 Paesi del mondo, sembrano aver compreso molto bene le conseguenze del cambiamento climatico. Si inizia a parlare, ormai apertamente per il prossimo anno, di crisi economica, aumento della disoccupazione globale e necessità di uno sviluppo sostenibile.
Ovviamente non manca l’ottimismo. Donald Trump durante il suo intervento ha potuto rivendicare come “l’America stia vincendo di nuovo” grazie ai “grandiosi numeri” della sua amministrazione, e agli ottimi rapporti commerciali con la Cina. È stato facile per lui ammonire tutti “i profeti di sventura” perché “questo non è il momento del pessimismo sul clima”.
E meno male che Greta Thunberg, la giovane attivista svedese, con l’infaticabile tenacia e perseveranza della sua età, ha colto anche questa occasione per denunciare la mancata esecuzione degli impegni presi da molti paesi, presenti alla conferenza, circa la diminuzione delle emissioni di CO2 e per chiedere “a tutti i partecipanti, banche, istituzioni e governi di disinvestire subito e completamente dai carburanti fossili”.
Soprattutto, al centro degli incontri di Davos quest’anno c’è la discussione sul modello di capitalismo futuro. Il World Economic Forum ne individua tre: il “capitalismo degli azionisti”, proprio della maggior parte delle società occidentali, orientato alla realizzazione del massimo profitto; il “capitalismo di Stato”, gestito dal governo, secondo il modello cinese e di altri paesi emergenti; il “capitalismo delle parti interessate”, che attribuisce alle società private il ruolo di amministratori fiduciari della società.
A Davos pensano tutti che questa terza via sia “chiaramente la migliore risposta alle attuali sfide sociali e ambientali”.
E qui sta il punto cruciale. Perché invece ci sono economisti che, analizzando il “capitalismo delle parti interessate”, altrimenti detto “società 3.0”, si sentono più propensi ad affermare che in esso non risieda la soluzione alle principali questioni del nostro tempo, quanto piuttosto l’incapacità strutturale di affrontarle con efficacia.
Basterebbe leggere “Leadership in un futuro che emerge” (Franco Angeli editore) di Otto Scharmer, professore del MIT di Boston, considerato uno dei più innovativi studiosi internazionali di change management, e di Katrin Kaufer, ricercatrice del MIT e direttore del Presencing Institute.
Fra i limiti più evidenti che vengono attribuiti a questo modello economico, infatti, ce ne sono due particolarmente significativi. Il primo: l’essere sbilanciato a favore di gruppi di interesse ristretti e definiti, con la conseguenza di tagliare sistematicamente fuori tutti i gruppi che non possono organizzarsi così facilmente, perché troppo vasti (e cioè consumatori, contribuenti e cittadini) o senza potere “contrattuale” (le generazioni future). Il secondo: l’impossibilità di far fronte concretamente a fattori quali i cambiamenti climatici, le devastazioni ambientali, i cambiamenti demografici (fra cui le migrazioni), la povertà estrema e la scarsità di risorse.
Insomma, a Davos hanno deciso di farsi alcune domande, ma non stanno trovando le risposte.
E allora, forse, è il caso di andare verso Assisi. La città umbra sta sempre più diventando il centro di una elaborazione culturale originale e profondamente innovativa. Una elaborazione che ambisce a farsi modello economico universale. Coniugare la cura dell’ambiente con la partecipazione di tutti, questo il senso (e la sfida) dello sforzo teorico ad ampio raggio, che qui viene condotto portando la discussione su temi economici, etici e sociali fuori dalle traiettorie più consuete.
Il momento culmine di questo percorso sarà l’”Economia di Francesco”, un evento fortemente voluto da Papa Francesco, che si terrà ad Assisi dal 26 al 28 marzo prossimi, e coinvolgerà giovani economisti, imprenditori e change makers di tutto il mondo, chiamati ad elaborare e siglare un nuovo patto per il futuro, nel solco della tradizione del pensiero di Francesco di Assisi.
Parallelamente all’iniziativa internazionale, anche il panorama culturale economico e produttivo italiano sta muovendo passi incisivi. A partire dalla presentazione in questi giorni del “Manifesto di Assisi”. Il documento contro la crisi climatica e per una economia e una società a misura d’uomo vede tra i suoi promotori Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola, padre Enzo Fortunato, direttore della rivista San Francesco, e padre Mauro Gambetti, Custode del Sacro Convento di Assisi, ed ha raccolto più di 1700 adesioni tra rappresentanti di istituzioni, mondo economico, politico e della cultura.
Sostenibilità ambientale economica e sociale, per una crescita che riduca squilibri e disuguaglianze; economia circolare, per azzerare lo spreco, gestire il rifiuto e utilizzare sempre più materia prima seconda; economia civile, per promuovere un nuovo umanesimo di mercato, che ridefinisca il legame tra economia ed etica. Il futuro si può fondare soltanto su questi pilastri, è il messaggio che Assisi sta lanciando al mondo.
L’alleanza dei diversi protagonisti economici, politici, sociali, della cultura e della ricerca, insieme a qualità, creatività, efficienza e bellezza sono i veri fattori competitivi che possono tirarci fuori dai guai, “senza lasciare indietro nessuno, senza lasciare solo nessuno”.
L’appuntamento è ad Assisi.