Per una Fase 2 con uno smart working davvero intelligente

Per far fronte all’emergenza pandemica, lo smart working è stata un’ancora di salvezza. Molte categorie hanno infatti potuto lavorare da casa, attenuando così gli effetti di ricaduta della chiusura necessaria al contenimento del contagio. Certo, nel settore dei servizi, il terziario; perché nell’industria manifatturiera, così come nell’agroalimentare il lavoro agile non è possibile, se non sul piano dell’organizzazione dell’attività.
Ora che la sicurezza sul lavoro è diventata soprattutto una questione di biosicurezza, cosa a cui eravamo, e forse ancora siamo, impreparati sul piano culturale e delle pratiche, la tutela del lavoratore passa anche attraverso il ricorso massiccio al lavoro da remoto.
Ma dall’emergenza bisogna ad un certo punto uscire per definire quella che sarà la nostra “nuova” normalità, e occorre domandarci che cosa sia davvero il lavoro agile, una modalità poco diffusa nel nostro paese prima del Covid 19. Secondo l’indagine Infojobs Smart Working 2020, realizzata a marzo su un campione di 189 aziende e 1149 candidati, per il 79% dei lavoratori questa è stata la prima esperienza di lavoro agile.
Tra le numerose definizioni di smart working, nella sua sintesi risulta efficace quella di Rob Jansen, che ha lavorato come program manager IT del Ministero degli Esteri in Olanda, un paese in cui più del 40% dei lavoratori adotta stabilmente e da tempo questa modalità. Jansen ha definito il lavoro agile come “libertà”, spiegando che si tratta della “libertà necessaria per arrivare ad operare nel miglior modo possibile, svolgendo il proprio lavoro in base a dei risultati ben definiti.” Perché “Smart Working è la possibilità di decidere dove, come e con chi fare il tuo lavoro”.
Si comprende come, così inteso, il lavoro agile sia il risultato di un cambiamento radicale nel processo di organizzazione del lavoro. Emerge difatti una nuova figura di lavoratore, anche dipendente, imperniata sull’autonomia, la responsabilità e la condivisione degli obiettivi.
Lavoro agile dunque non è soltanto la possibilità di lavorare da casa. Questo è l’aspetto che negli ultimi mesi abbiamo potuto (dovuto) apprezzare, ma il suo consolidarsi richiede una ben più profonda ridefinizione delle attività e delle relazioni professionali, nel pubblico come nel privato. E che siano da rintracciare qui le ragioni delle resistenze che, prima del Covid 19, lo smart working ha incontrato nel nostro Paese?
Stretto controllo del flusso di informazioni e visione gerarchica delle relazioni sono certamente due condizioni per così dire “caratteristiche” del mondo del lavoro italiano. E abbiamo capito come siano antitetiche con lo sviluppo dello smart working. Che è “agile”e “intelligente” non tanto – o non solo – perché svincolato da un luogo fisico o da orari predeterminati, ma soprattutto perché è “liberato”, per dirla con Jansen, da tutti quegli elementi accessori, cioè non relativi al lavoro in sé, che lo ingabbiano in schemi poco produttivi e poco gratificanti insieme.
Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma, convinto sostenitore dello smart working da decenni, ha in queste settimane più volte riflettuto sui motivi della sua scarsa diffusione in Italia e, in una recente intervista al “Corriere del Ticino”, ha senza mezzi termini sostenuto che “il telelavoro finora non si era affermato su vasta scala, nonostante tutti i vantaggi che porta alle aziende, in quanto molti capi azienda hanno una visione del potere molto arcaica, secondo la quale bisogna avere il dipendente a portata di mano e sotto le proprie grinfie”, arrivando a prevedere uno scenario post emergenziale in cui “vi sarà una battaglia tra lavoratori che si sono abituati a telelavorare e i loro capi che vorranno riportarli dentro l’azienda”.
Ma questo vorrebbe dire davvero non ricavare nessun insegnamento dalla catastrofe che stiamo vivendo. Perché oltre ai vantaggi per il lavoratore, che grazie alla flessibilità può ambire ad un migliore bilanciamento dei tempi di lavoro e di vita, e per l’azienda (o ente) grazie alla riduzione dei costi degli spazi (affitto e gestione) e di erogazione di servizi, lo smart working è anche più sostenibile dal punto di vista ambientale grazie alla riduzione del traffico e della circolazione di mezzi inquinanti e dunque alla significativa riduzione delle emissioni di CO2. Per non parlare del problema del sovraffollamento dei mezzi pubblici, che sarà una delle vere questioni della nostra fase di convivenza col Covid 19.
Esistono naturalmente anche degli svantaggi: il lavoro agile può portare il lavoratore a ridurre il proprio impegno, può farlo sentire non adeguatamente valorizzato perché “nascosto”, possono prodursi fenomeni di marginalizzazione o di isolamento all’interno della comunità lavorativa, mentre la riduzione del confine tra lavoro e casa può diventare fonte di disagio e di stress. Per questo, molti lavoratori apprezzano la possibilità di praticare lo smart working a rotazione, prevedendo anche un “rientro” nel luogo di lavoro, per non perderne la dimensione fisica e relazionale.
Certo, l’aver sperimentato in modo così massiccio, improvviso e obbligato il lavoro agile in coincidenza con la pandemia che ci ha travolto, non ci ha consentito di riorganizzarci come avremmo dovuto. Sono di questi giorni ricerche dagli esiti non particolarmente confortanti, ma è difficile distinguere che cosa effettivamente dipenda dal lavoro da casa e che cosa dalla situazione forzata in cui abbiamo cominciato a praticarlo su vasta scala. Si parla di problemi di sovraffaticamento, di insonnia, di maggiore consumo di cibo e di alcol, dell’insorgenza di problemi posturali e della difficoltà a tenere separati la sfera lavorativa da quella familiare, con un indubbio aumento delle ore lavorative, come ha messo in evidenza una ricerca sul benessere dei lavoratori realizzata dall’Institute for Employement Studies durante le prime settimane di lockdown in Gran Bretagna. Ma chissà quali sarebbero stati gli esiti di una analoga ricerca rivolta a coloro che durante il lockdown sono stati costretti a recarsi sul posto di lavoro, e impossibilitati a fare altrimenti. Diciamo che il concetto di benessere in una situazione pandemica può essere assimilato soltanto alla riduzione del rischio di contagio. Tutto il resto viene dopo, oppure semplicemente non è dato.
Malgrado i numerosi aspetti critici contingenti, infatti, secondo un’indagine di Nomisma, anche quando l’emergenza sarà finita il 56% dei dipendenti vorrà continuare con lo smart working, mentre nella Pubblica amministrazione la quota dovrebbe attestarsi intorno al 30-40%.
Chi in questo periodo ha manifestato più difficoltà organizzative con il lavoro agile sono le donne, che pure sono coloro che nei vari ambiti lavorativi già prima lo praticavano in misura maggiore. Lo ha messo in luce la ricerca #IOLAVORODACASA condotta da Valore D, rilevando che in questo periodo una donna su tre lavora più di prima e non riesce, o fa fatica, a mantenere un equilibrio tra il lavoro e la vita domestica. Ma, anche qui, il 60% del campione femminile intervistato era già abituato a lavorare in modalità “lavoro agile”, con flessibilità di orario e spazi. Le difficoltà rilevate sarebbero perciò da ricondurre soprattutto a questo periodo di lockdown con convivenze forzate, magari con figli da seguire nella didattica on line.
Nella Fase 2 occorre dunque passare dalla necessità del cambiamento rapido alla consapevolezza della necessità del cambiamento. In modo particolare, favorendo la svolta culturale che sta alla base del lavoro da remoto, come ha spiegato Marina Brolla, docente di Diritto del lavoro all’Università di Udine, sul “Corriere Veneto”. Ora si aprono questioni urgenti – di una diversa urgenza rispetto all’emergenza sanitaria, ma pur sempre importanti -, come “la riprogettazione dei compiti, con scadenze chiare e ben definite”, “l’attenzione alle misure di sicurezza, con limiti di reperibilità” e la garanzia del “diritto alla disconnessione”.
Tutti nodi che i sindacati dovranno velocemente affrontare nel difficile compito di rappresentare un mondo del lavoro molto più povero e sempre più articolato che ha bisogno sia di regole stringenti per la sicurezza di chi ritornerà nei luoghi produttivi sia di nuove norme a tutela di chi proseguirà con lo smart working.