Di cosa parliamo quando parliamo di acqua?

“L’acqua è un diritto di base per tutti gli esseri umani: senza acqua non c’è futuro”, diceva Nelson Mandela per concludere semplicemente che “l’acqua è democrazia”, perché l’accesso a questa risorsa indispensabile per la vita e ogni attività dell’uomo consente l’esercizio di tutti gli altri diritti.
Secondo i dati dello IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), i cambiamenti climatici stanno esercitando un’influenza molto negativa sulla disponibilità di acqua. Oggi sappiamo che all’aumento di un grado della temperatura terrestre corrisponde a livello globale una riduzione pari a circa il 20% della disponibilità delle risorse idriche.
Ciò significa che, proseguendo a questo ritmo di surriscaldamento del Pianeta e in assenza di misure arginanti, al 2030 la disponibilità di acqua potrebbe ridursi del 40%. In prospettiva al 2050, la situazione, incrociandosi con il costante aumento della domanda per la crescita demografica, da un lato, e l’inquinamento legato alle attività dell’uomo, dall’altro, significherebbe che oltre 5 miliardi di persone potrebbero patire una strutturale carenza di acqua e problemi connessi alla sua scarsa qualità, con gravi ripercussioni in primo luogo sulla salute. Consideriamo che già oggi, secondo uno studio condotto dall’OMS, il 40% della popolazione mondiale vive in condizioni igieniche precarie, soprattutto per la carenza di acqua (50 litri al giorno è considerato il quantitativo minimo necessario al fabbisogno individuale).
Dall’Italia, paese complessivamente ricco di acqua, tendiamo a guardare a questi scenari drammatici come a una realtà lontana. Purtroppo non è così.
Le recenti crisi idriche del biennio 2017- 2018 stanno a dimostrarcelo: moltissime regioni, dal Piemonte al Lazio, dalla Toscana al Veneto, dalla Sardegna alla Campania, dal Friuli Venezia Giulia alla Calabria, negli ultimi anni si sono trovate nella necessità di chiedere un sostegno straordinario.
Secondo il Centro Euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC), le prospettive derivanti dalla crisi climatica non sono per niente incoraggianti per il nostro Paese. Gli aumenti della temperatura e la diminuzione delle precipitazioni, così come l’intensificarsi dei fenomeni estremi, determineranno infatti trend climatici sfavorevoli per l’Italia. E il World Resources Institute di Washington (WRI) ci colloca fra i Paesi esposti al rischio di grave stress idrico nel medio periodo, calcolato al 2040.
Perché se è vero che mediamente il nostro è un Paese ricco di acqua, è anche vero che questa è distribuita in modo disomogeneo con grandi differenze tra Nord, con più precipitazioni, e Sud, con meno precipitazioni ed evaporazione abbondante, e le catene montuose che attraversano il territorio rendono difficili gli spostamenti d’acqua in eccesso tra le regioni. Un’indagine del National Geographic ha rilevato che “nonostante gli abbondanti 300 miliardi di metri cubi di acqua che cadono o fluiscono in Italia ogni anno, se ne possono utilizzare appena 58 miliardi di metri cubi”. Più dell’80% del prelievo nazionale per uso potabile deriva infatti da acque sotterranee, il 15,1% da acque superficiali, mentre il restante proviene da acque marine o salmastre.
In Italia il consumo di acqua è enorme, con un consumo pro-capite che ci vede al primo posto in Europa e al terzo su scala globale dopo Stati Uniti e Canada, anche se con valori variabili che spaziano dai 150 litri in Puglia ai 400 litri al giorno in Valle d’Aosta. Lo dice il Rapporto 2020 dell’ISPRA su Le risorse idriche nel contesto geologico del territorio italiano registrando quello che è il dato più “preoccupante”, ovvero “le perdite delle reti di distribuzione, che fanno rilevare un tasso di circa il 40% sia per l’uso potabile che per quello irriguo”. Il tasso di dispersione dell’acqua, precisa l’Istat, è pari al 42% – addirittura in aumento, in 13 regioni e province autonome su 21 rispetto al 2015 – e descrive la grave inefficienza dell’infrastruttura idropotabile del nostro Paese.
Il recente Rapporto sul benessere equo e sostenibile, ci dice infatti che “a fronte degli 8,2 miliardi di metri cubi di acqua per uso potabile immessi nelle reti comunali di distribuzione (371 litri per abitante al giorno), le perdite idriche totali sono state pari a 3,4 miliardi di metri cubi (156 litri al giorno per abitante)”. Si tratta di un volume corrispondente a quanto mediamente consumerebbero circa 44 milioni di persone per un intero anno. Uno spreco di proporzioni gigantesche, quasi incredibile in un Paese in cui i problemi di siccità sono entrati nell’agenda politica nazionale con sempre maggiore frequenza.
La situazione infrastrutturale più deficitaria, chiarisce il Rapporto, “si registra nelle aree del Centro e del Mezzogiorno, che presentano ingenti criticità in circa un comune su due. In Abruzzo (55,6%), in Umbria (54,6%) e nel Lazio (53,1%), dove si registrano i valori regionali più alti, più della metà dei comuni ha perdite in distribuzione pari ad almeno il 55% del volume immesso in rete.”
Ma l’acqua che viene erogata come viene poi effettivamente impiegata? Dell’intera richiesta di acqua a livello nazionale il settore agricolo utilizza il 60%, il settore energetico e industriale il 25%, mentre per gli usi civili utilizziamo il 15%.
Appare dunque evidente che, al netto delle buone pratiche per un uso responsabile da parte di ciascun cittadino – con un ampio margine di miglioramento – è proprio il complessivo sistema nazionale di gestione della risorsa idrica a fare letteralmente acqua da tutte le parti e a non essere in alcun modo sostenibile. Anche perché l’acqua, contrariamente a quanto pensiamo, è una risorsa limitata e sempre più destinata a scarseggiare. Senza dimenticare i due milioni e mezzo di famiglie che oggi nel nostro Paese ricevono un’erogazione non regolare o razionata di acqua potabile.
Il PNRR presentato in Europa, al vaglio di Bruxelles in questi giorni, tra le molteplici misure di investimento che prevede, individua anche le risorse da destinare al miglioramento dell’efficienza idrica, nella consapevolezza che l’Italia risulta “maggiormente esposta a rischi climatici rispetto ad altri Paesi”, non solo per fattori oggettivi, quali la “configurazione geografica” e “le specifiche del territorio”, ma anche per fattori legati a una cattiva, se non illegale, gestione del territorio a causa degli “abusi ecologici che si sono verificati nel tempo”.
L’impegno previsto dal Piano ammonta a 4,38 miliardi di euro complessivi, che vengono così ripartiti: 2 mld per gli investimenti primari per la sicurezza della fornitura d’acqua; 0,90 mld per la riduzione delle perdite delle reti idriche; 0,88 mld per una migliore gestione delle risorse idriche nel settore agroalimentare (il 15% dell’acqua utilizzata per l’irrigazione proviene oggi da fonti sotterranee non rinnovabili, a cui si aggiunge il problema dell’inquinamento delle falde acquifere legato all’utilizzo dei fertilizzanti); e infine 0,60 mld destinati alle reti fognarie e al trattamento delle acque reflue (questione per cui l’Italia ha già subito due condanne da parte della Corte di giustizia dell’UE).
Questo Piano di investimenti deve tuttavia misurarsi anche con scelte gestionali di ampio respiro, visto che secondo i dati della Cgia di Mestre, negli ultimi dieci anni le tariffe del servizio idrico sono aumentate di oltre il 90% (pur risultando ancora tra le più basse d’Europa), ma non altrettanto gli investimenti nelle reti idriche, che pure dipendono per l’80% proprio dalla tariffa e per il 20% dai contributi pubblici. Per fare qualche esempio, nel 2019 l’Italia ha stanziato circa 32 euro all’anno per abitante, mentre la Francia ne ha investiti 88 e la Danimarca 129.
Sempre nel 2019 l’Osservatorio Valore Acqua di The European House – Ambrosetti aveva calcolato che, per allinearsi con la media europea degli investimenti nelle reti idriche, al nostro Paese sarebbero serviti almeno 3,6 miliardi di euro addizionali.