Due punti, un piano e una retta

“What more evidence do we need?”, chiede – subdolo – il sommo sacerdote Hannas alla folla inferocita e agli altri membri del Sinedrio, nel racconto dell’arresto di Gesù, in Jesus Christ Superstar, la più straordinaria rock-opera di sempre. E noi? Di quante altre prove abbiamo bisogno, prima di capire che, dal 1° maggio 1947 a oggi, in questo nostro meraviglioso, assurdo, sciagurato Paese, si gioca a un gioco soltanto: “sdemocratizzare la democrazia”? Ridurre, cioè, progressivamente, nel tentativo di annullarlo, il reale coefficiente di democraticità della Repubblica nella quale viviamo.
La nostra Costituzione entrerà in vigore solo otto mesi dopo, e, a Portella della Ginestra, si inaugura già quella che verrà definita “strategia della tensione”. Obiettivo? Evidente persino ai ciechi (purché in buona fede, s’intende): fare di tutto perché la nascente “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, muoia prima o durante il parto, portando, possibilmente, con sé anche sua madre, odiatissima dal potere: la Resistenza.
Potere in corsivo, per sottolineare che non mi riferisco a questo o quel potere o potente, ma al potere in sé: una forza dal fascino praticamente irresistibile, che seduce l’uomo fino a renderlo schiavo di una dipendenza più forte di qualunque droga. L’uomo si illude di dominare quella forza, mentre è lei a dominare lui, come un cavallo imbizzarrito, che conduce dove vuole chi lo cavalca – ignorando i comandi di redini, frustino e speroni – pronto a disarcionarlo e sostituirlo in qualunque momento.
Moderati (veri od opportunisti) o estremisti che siano, la parola d’ordine dei nemici della democrazia parlamentare rappresentativa a suffragio-universale è una sola: sde-mo-cra-tiz-za-re. Se si riesce a farlo, senza spargimenti di sangue, meglio. Se, però, non è (o non sembra) possibile o i tempi si allungano, beh, allora, che scorra pure il sangue. “Il fine giustifica i mezzi”, no? Sentenza che Machiavelli non ha mai scritto – e, probabilmente, mai nemmeno pensato – ma che tutti gli addicted del potere hanno fatto in modo di trasformare in uno dei più amati mantra della Storia. Il potere, si sa, è forza antidemocratica per definizione. Chi ce l’ha, non ha alcuna intenzione di perderlo (per questo la rivoluzione è destinata a diventare conservazione); chi non ce l’ha è disposto a qualunque cosa pur di averlo. E il popolo? Prima o poi, capirà. Con le buone o con le cattive. A lui la scelta. Se ama così tanto la democrazia, apprezzerà il fatto che gli venga lasciata, no?
Da Portella della Ginestra a oggi, è il tentativo di far fuori la democrazia l’unica vera costante della Storia italiana. Tutto il resto è corollario. È il movente comune a tutti i passi compiuti: dai pochissimi leciti ai moltissimi illeciti, illegali, immorali, sanguinosi, devastanti. Un inquietante filo rosso – nero, anzi – che lega tutti i misfatti italiani. Piccoli, medi, grandi, grandissimi ma tutti egualmente deprimenti, sfiducianti, disperanti. E tutti costruiti ad arte per incendiare gli animi e provocare reazioni sempre più indignate, rabbiose e violente, nei confronti della democrazia, fragile, impotente, incapace di fare giustizia.
“Non si capisce nulla del nostro sistema di potere – scrive Bobbio (“Democrazia e segreto”, Einaudi 2011) – se non si è disposti ad ammettere che al di sotto del governo visibile c’è un governo che agisce nella penombra… e ancora più in fondo un governo che agisce nella più assoluta oscurità… un potere invisibile che agisce accanto a quello dello Stato, insieme dentro e contro, sotto certi aspetti concorrente sotto altri connivente, che si vale del segreto non proprio per abbatterlo ma neppure per servirlo. Se ne vale principalmente per aggirare o addirittura violare impunemente le leggi…”.
Non starò qui a recitare, per la milionesima volta, l’ignobile via crucis che unisce Piazza Fontana all’omicidio di Marco Biagi, passando per “Piano Solo” (1964) e golpe Borghese (1970), con la “partecipazione straordinaria” di organizzazioni segrete eversive e paramilitari come loggia P2, Rosa dei Venti, Nuclei di difesa dello Stato o Gladio. Chi conosce quella via crucis, sa di cosa parlo. Chi non la conosce, è la prova vivente che i tessitori di quel filo nero hanno fatto un eccellente lavoro e raggiunto uno dei più importanti obiettivi che si prefiggevano: l’invisibilità. «La plus belle des ruses du diable est de vous persuader qu’il n’existe pas!», scriveva Baudelaire (“Le Joueur généreux”, 1869), molto prima di Keyser Söze. Dire, dunque, sarebbe inutile: le parole si perderebbero come pioggia in alto mare.
Né reciterò la via crucis, ancora più ignobile, che, a ogni stazione, vede lo Stato costernarsi, indignarsi, impegnarsi e poi gettare la spugna, senza alcuna dignità, per parafrasare De André. Il fatto è che, anche se non sembra, la logica di quel filo nero ispira anche tutte le riforme elettorali e costituzionali, proposte, approvate o respinte fino a oggi. Tutte.
La Costituzione non è scolpita sulla pietra e si può modificare. Vero. A una condizione, per come la vedo io: trovare “modificatori” che siano al livello – morale, culturale, intellettuale e di visione politica – degli estensori. E, naturalmente, che rispettino lo spirito della Carta. Voi ne vedete qualcuno? Se sì, indicatemeli, vi prego. Io non li vedo. Non tra gli under 70, almeno. E pochissimi, ormai, anche al di sopra di quell’età. La nostra Carta è stata scritta da una squadra stellare. Una squadra molto più grande del Grande Torino. Ha senso affidarne la riscrittura – tra l’altro a “spizzichi e bocconi” – a una selezione scapoli-ammogliati della bocciofila di Breccanecca? No. Se si continua a farlo, significa solo una cosa: l’intento non è migliorare ma sabotare la Carta. Piegarla a interessi che dello spirito dei Costituenti hanno assolutamente nulla. E piegare la Carta, significa piegare la democrazia, con l’obiettivo di ridurla da Signora a schiava.
Stesso dicasi per le leggi elettorali. Un tormentone indecente, che va avanti da decenni. Decenni nei quali ogni maggioranza ha fatto carte false (letteralmente, talvolta) per riuscire a ottenere il massimo dei seggi con il minimo dei voti.
Qualche esempio?
Si parte con la “legge truffa” (1953). Ispirata alla famigerata “legge Acerbo” del 1924, prevede un clamoroso premio di maggioranza (380 seggi: il 65%) al raggruppamento di liste che superi il 50,01% dei consensi. Alla DC, però, il colpaccio non riesce, e la carriera politica di De Gasperi – non l’ultimo arrivato – si chiude, infelicemente, per la mancata fiducia (la prima nella storia repubblicana) al suo Governo. L’ottavo e anche il più breve dei suoi: 32 giorni.
C’è, poi, il maggioritario (seppure temperato da una quota proporzionale), introdotto a furor di popolo referendario (95,57% di “Sì”) nel ‘91, guarda caso, in piena Tangentopoli. Sistema che, a detta dei suoi sostenitori, avrebbe garantito la fine dello strapotere dei partiti e, dunque, della corruzione, e persino del debito pubblico. I partiti, in effetti, finiscono. Quelli che hanno dominato la scena nella cosiddetta “Prima Repubblica” (quando mai è stata istituita la Seconda?), almeno. A giudicare da quelli che sono venuti dopo, non è facile dire se sia stato davvero un bene. La corruzione, invece, è dilagata a livelli parossistici, contaminando qualunque livello decisionale, pubblico e privato, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande. Quanto al debito pubblico, beh: la carità di patria consiglia di tacere.
Al primo appuntamento col nuovo sistema elettorale (marzo ’94), Mario “Mariotto” Segni – leader morale del moralizzante movimento referendario – viene, clamorosamente, sconfitto nella sua Sassari da tale Carmelo Porcu, sconosciuto (allora come oggi) outsider di Forza Italia, proveniente dal MSI. A sorpresa, Porcu liquida l’astro nascente della politica italiana, l’uomo che tutti ormai consideravano il Presidente del Consiglio in pectore. Cos’è successo? Da bravo cavalier servente, “Mariotto” ha sdoganato – così come gli era stato chiesto – la cultura maggioritaria. Il suo compito è finito, lui è diventato inutile e deve, quindi, essere messo a riposo. Il potere ha scelto ben altro Cavaliere.
Si chiude, così, (ingloriosamente) la (gloriosa) stagione dei partiti, e si apre quella dei leader. Basta “Presidenti del consiglio” (“primum inter pares”): è la volta dei “Premier” (“primum” e basta). Differenza sostanziale, non linguistica. Il confronto politico non è più tra sistemi di idee (le tanto demonizzate “ideologie”), ma tra leader. Prima, contavano (e si votavano) le idee (liberalismo, socialismo, comunismo, cattolicesimo politico, destra, ecc.) – e i leader venivano scelti tra coloro i quali sapevano rappresentarle al meglio – ora, contano (e si votano) le persone. Anche perché di idee se ne vedono pochine. E fin troppo confuse. Prima, il leader interpretava una politica (più o meno come un direttore d’orchestra interpreta una partitura) ora il leader è la politica. Lui scrive la musica, il Governo la esegue, la stampa fa il coro, il Parlamento ascolta, il popolo batte le mani. La “personalizzazione” della politica è totale, al punto che i leader non si chiamano più De Gasperi o Togliatti, Moro o Berlinguer, Andreotti o Craxi, ma Silvio, Matteo (R), Beppe, Matteo (S), Gigino, Giorgia e Giuseppi.
Il passo successivo (2005) in materia di legge elettorale tocca il vertice, ignominioso, della protervia: il “porcellum”, definito “una porcata” dal suo stesso ideatore: Roberto Calderoli. Criticato duramente dalla Corte di Cassazione, il “porcellum” verrà dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale (2013), proprio per la natura oscena di un premio di maggioranza che consente di ottenere il 54% dei seggi, senza nemmeno una soglia minima di consensi da superare per farlo scattare.
Segue, quindi, (2015), l’“Italicum” renziano, anche questo dichiarato parzialmente illegittimo dalla Corte Costituzionale (2017), per il solito vizietto: il premio di maggioranza (340 seggi: il 55%) alla lista che, al primo turno, ottenga il 40% dei voti (37% nella versione originale).
Tocca al misto “Rosatellum” (2017) eliminare (per il momento, ovviamente) questo giochetto di prestigio, con il quale – come per magia – una minoranza viene trasformata in maggioranza, in barba a ogni rispetto della tanto invocata volontà popolare e con tanti saluti al principio “una testa un voto”.
La domanda è: se la ribattezzarono “legge truffa”, quando il premio di maggioranza veniva attribuito a chi raggiungeva il 50% più 1 dei votanti (una maggioranza, dopotutto), che nome dovremmo dare a le leggi che pretendono di attribuirlo a chi raggiunge il 40% (o meno!) dei votanti? E a quelle nelle quali non si fissa nemmeno una soglia minima da raggiungere per far scattare il premio?
Qualcuno, poi, ha riflettuto sul fatto che, in presenza di un premio di maggioranza, i voti non sono più tutti uguali, nel senso che non “pesano” tutti allo stesso modo? È evidente, infatti, che un voto dato a una lista che non ottiene il premio di maggioranza, vale 1, mentre il voto dato a una lista che lo ottiene, vale 1+n. I voti e, dunque, gli elettori non sono più tutti uguali. Nemmeno la legge elettorale, dunque, è uguale per tutti.
Eppure, come ricordava Sartori (“La corsa verso il nulla”, Mondadori, 2015), “un sistema che consente, anzi, produce una genuina espressione delle preferenze degli elettori esiste. È il maggioritario a doppio turno”. Al primo turno è “come un sistema proporzionale: ogni elettore esprime liberamente la sua prima preferenza e, così facendo, immette la sua scelta nel meccanismo elettorale. […]. “Al secondo turno, la seconda volta, mi toccherà invece scegliere un candidato di mia seconda preferenza, oppure il meno sgradito. Ma anche questa è una scelta mia, non del partito o della mafia. In nessun caso sono mai un sovrano esautorato, imbrogliato o coercito”. “L’ho proposto più volte – commenta Sartori – ma i nostri legislatori non lo vogliono”. Chissà come mai.
Ma la storia delle nefandezze in materia di leggi elettorali non è certo finita qui. L’appuntamento per tutti gli appassionati di “Bye Bye Democracy” – da sempre la telenovela più amata dagli italiani-che-non-amano-gli-italiani – è per domenica 20 e lunedì 21 settembre, quando andranno in onda le due puntate trailer della nuova stagione, denominate: referendum confermativo sul taglio dei parlamentari, il cui esito comporterà la necessità di mettere, ancora una volta, le mani sulla legge elettorale. E non è difficile immaginare per farne cosa.
Dato che, trattandosi di referendum confermativo, non è previsto alcun quorum, anche una ridicola minoranza di persone può decidere di far fare al nostro Paese l’ennesimo passo di allontanamento dalla democrazia. L’occasione è troppo ghiotta per non approfittarne! E quando ci ricapita di tagliare 345 “poltrone” alla “casta”? Un precedente pericolosissimo, spacciato per un grande passo avanti. Passo avanti per chi? Governati (popolo) o governanti (casta)?
È qual è, questa volta, lo specchietto per le allodole? Il risparmio. Ah, beh, allora… Una roba ridicola: il risparmio effettivo, infatti, sarà di soli 285 milioni a legislatura: 71,25 milioni all’anno: lo 0,007% della spesa pubblica, secondo Cottarelli, che, sul Corriere della Sera del 4 settembre scorso, ha definito il taglio “pericoloso” e “stupido”. Gli elettori italiani (poco più di 51 milioni) risparmieranno la bellezza di 5,5 euro a legislatura, vale a dire 1 euro e 10 centesimi all’anno: l’equivalente di un caffè. I cittadini italiani (60,2 milioni), invece, si dovranno accontentare di 4,7 euro a legislatura (94 centesimi di euro l’anno): nemmeno quel caffè. Pazienza: vuol dire che se lo faranno offrire. Vuoi mettere, però, la gioia di mandare, finalmente, a casa 345 loro rappresentanti? Sono soddisfazioni. Una pernacchia alla democrazia varrà bene un quasi-caffè! O no?
Due domande. Volgari, lo dico subito. Del resto a motivazioni così volgari (soprattutto quelle reali e non dichiarate) come quelle di chi sostiene il sì, si può rispondere solo con la stessa moneta.
- Ci rendiamo conto o no che c’è differenza tra “tagliare i coglioni” e “tagliarsi i coglioni”? In una democrazia parlamentare, tagliare i rappresentanti significa tagliare la rappresentatività. E la centralità del Parlamento – già duramente umiliata e offesa dal continuo ricorso a decreti legge e dpcm – andrà, rapidamente, a farsi benedire. Di questo passo, molto presto qualcuno si alzerà in piedi, ne decreterà l’inutilità e la sdemocratizzazione sarà, finalmente, completa.
- Se ci ostiniamo a votare ed eleggere imbecilli, ignoranti e ladri, come possiamo, poi, sorprenderci e lamentarci del fatto che ci ritroviamo con un Parlamento di ladri, ignoranti e imbecilli? O siamo stupidi o siamo complici. Tertium non datur. E, in entrambi i casi, la colpa non è loro: è nostra.
E ora, una domanda un po’ più leggera, di ispirazione calcistica. Secondo voi, la Juve o l’Inter giocheranno il prossimo Campionato con 7 giocatori anziché 11 (un taglio proporzionalmente equivalente a quello dei parlamentari) solo perché hanno perso Champions ed Europa League? Come dite? Sarebbe una follia? Ne sono convinto anch’io. E credo anche che nessun tifoso approverebbe mai una scelta del genere. Se una squadra gioca male, si cambiano giocatori, non si taglia certo il loro numero! Allo stesso modo, è una follia, tagliare i Parlamentari, semplicemente perché, quelli eletti, non sanno fare il loro mestiere o sulla base del luogo comune “tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”, come canterebbe De Gregori.
Siamo noi elettori i “datori di lavoro” dei parlamentari. Possiamo tagliargli lo stipendio e anche “licenziarli” (non votarli), sostituendoli con rappresentanti migliori: persone degne – per moralità, cultura, intelletto, esperienza, capacità e visione politica – di essere chiamate “Onorevole”. Come dite? Impossibile? Non esistono più persone del genere? Ne siete davvero convinti? Allora il problema è infinitamente più grande di quello che crediamo. E tagliare il numero dei parlamentari servirà assolutamente a niente. Inoltre, vi pregherei di esprimere questo convincimento a bassa voce: se il potere vi sente, vi prende in parola e vi libera anche degli ultimi 600 imbecilli rimasti. È già successo. Un’infinità di volte. E non solo oltralpe. Anche qui da noi. E non mille anni fa. L’anno che sta per arrivare è il 2022, non il 1922. Non confondiamoci, please.
Perché la democrazia ha nemici tanto forti e ostinati? Perché costa. Tempo. Tanto tempo. E, soprattutto, soldi. Montagne di soldi. E a chi viene chiesto di sostenere questi costi? Agli unici che possono farlo, ovviamente: coloro i quali i soldi li hanno. Peccato che, chi ha i soldi, abbia nessunissima intenzione di farseli prosciugare dall’idrovora democrazia. Nella migliore delle ipotesi, evade e mette al sicuro i capitali in uno dei molti paradisi fiscali. Ormai, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Nell’ipotesi intermedia, corrompe, in modo che i suoi soldi gli tornino in tasca, con tanto di interessi. Nell’ipotesi peggiore, cospira. Più spesso, fa tutte e tre le cose insieme.
(Breve parentesi: qualcuno ha mai pensato di privare del diritto di voto gli evasori fiscali? No. E sapete perché? Perché, in un colpo solo, si perderebbero 11 [undici] milioni di voti. Voti che pesano, tra l’altro, anche perché i veri evasori non hanno certo i redditi dei pensionati o dei dipendenti pubblici. Chiusa parentesi).
I partiti? Mediatori inutili e troppo costosi. Si può tranquillamente farne a meno. Chi fa da sé, fa per tre, no? Ed ecco che, all’improvviso, un prestigiatore tira fuori dal cilindro “Tangentopoli”, azzerando, in un battito di ciglia, una classe dirigente cinquantennale, che certo non difettava di esperienza, intelletti e potere. Il gioco di prestigio riesce alla grande. Qualche anno dopo, il passo successivo: l’abolizione del finanziamento pubblico. Geniale. E così, in barba a qualunque principio di “pari opportunità” democratiche, chi può pagare (fondazioni, privati, “portatori di interessi”), può politicare; chi non può, resta fuori dal Parlamento e non può rappresentare nessuno. E chi sono quelli che possono? Gli stessi di cui si parlava prima: che domande!
L’elettorato? Armenti fin troppo mansueti, che chiedono solo di essere pascolati e di poter ruminare in santa pace. Perché non accontentarli? “Che cazzo ci vuole?! Trovate un mandriano che sappia fare il suo mestiere, qualche cane che sappia farsi rispettare e un pascolo sufficientemente verde. Basta che sia ben lontano dalla fattoria, mi raccomando!”.
Demolita la scuola, neutralizzate le coscienze con fiumi di culi, tette, gratta e vinci, coca & shottini, basta mettere sotto il muso dei pascolanti qualcosa da brucare (abolizione dell’Ici sulla prima casa, taglio dell’iva, flat-tax, bonus 80 euro, reddito di cittadinanza, ecc. ecc.) e il gioco è fatto.
Il Parlamento? Un bastone tra le ruote. “Parole, parole, parole”, canterebbero Mina e Alberto Lupo. Con questo maledetto bicameralismo paritario, poi! Si può sapere che diavolo di senso ha fare le stesse cose due volte? In realtà, per capirlo, basterebbe leggere. Peccato, però, che nessuno lo faccia più. Nemmeno durante il lockdown, come ha, recentemente, notato il Corriere della Sera (17 luglio 2020): 15% di italiani in meno, rispetto all’anno scorso, tra quelli (già pochi) che hanno preso in mano almeno un libro, fosse pure un libro di ricette o una guida turistica.
Il Parlamento è costoso, pletorico, inutile, ingombrante, cervellotico. Va eliminato. Pardòn: efficientato. E, allora, giù con tutta una serie di (ridicole) favolette. Favolette che i pascolanti si bevevano già molto tempo prima che nascessero i social e che “La Bestia” & Co. entrassero in azione, e che ora trangugiano, senza nemmeno prendere fiato, come birra ghiacciata in un afoso pomeriggio d’estate.
Favolette come “stabilità” (“non disturbate il conducente”), “governabilità” (“rendere docile dell’elettorato”), “pieni poteri” (il leader è l’asso pigliatutto e l’assemblea parlamentare è la sua ancella), “Europa” (matrigna cattiva sulla quale scaricare l’incapacità o la non volontà di assumersi la responsabilità del governare), “mercati” (intoccabili, immodificabili, ingovernabili, come se l’uomo fosse una loro creatura e non viceversa), “immigrati” (demonizzare stranieri e diversi è una strategia millenaria ma sempre attuale: chi semina odio, raccoglie consensi), e via così, di favola in favola… Favolette vecchie come il mondo ma che funzionano sempre. Basta saperle raccontare, e interi elettorati si addormentano felici e beati, tra le braccia del loro amato leader.
Un popolo che, malgrado le delusioni – in qualche caso drammatiche e devastanti – continua a invocare l’uomo forte, l’unto del Signore (Mussolini, Andreotti, Craxi, Berlusconi, Renzi, Grillo, Salvini o SuperMario), dimostra due cose:
- teme la libertà più della peste (“Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura”: “La leggenda del grande inquisitore”, F. M. Dostoevskij, 1879);
- non ha alcun rispetto per sé stesso. Ma, se non ha alcun rispetto per sé stesso, come può pretendere che gli altri abbiano un minimo di rispetto per lui? Chi si fa zerbino, non si può lamentare del fatto che le scarpe non fanno altro che calpestarlo e lordarlo.
Un’ultima domanda: se, come postulava Euclide, “per due punti distinti di un piano, passa una e una sola retta”, quando, su quel piano, i punti in fila uno dopo l’altro sono, ormai, centinaia, può essere più di una retta a unirli?
“What more evidence do we need”, allora?