Giusto versus sbagliato

Vannacci

Lo scorso anno, in Italia, sono stati pubblicati più di 85mila titoli nuovi. Se l’aritmetica continua – almeno lei – a non essere un’opinione, parliamo di 232,8 titoli al giorno: quasi 10 ogni ora. Nei minuti che impiegherete a leggere queste riflessioni, quindi, un altro libro avrà già raggiunto gli scaffali delle librerie.

Alla luce di questa premessa, secondo voi, quante probabilità ci sono che un testo di autore sconosciuto, autopubblicato e, dunque, senza editore e senza alcun tipo di promozione, possa essere notato? La risposta è semplice: nessuna. È infinitamente più probabile che, dalla cima dell’Empire State Building, un cieco riesca a individuare un uovo sodo sbucciato, all’interno di una piscina grande come Central Park, stracolma di palline da ping-pong.

Credetemi: parlo per cognizione di causa. Pubblico da più di vent’anni con alcuni tra i principali editori di questo Paese e so che, mentre quei libri che realizzo come ghost-writer e che vengono firmati da volti o nomi noti, arrivano a vendere anche decine di migliaia di copie, quelli scritti e firmati da me, si fermano a poche centinaia. E, dato che la penna è la stessa, è evidente che la differenza la fanno volti e nomi dei firmatari e una massiccia promozione.

Perché presentare un pamphlet tutto da meditare come Il mondo per il verso giusto, firmato da Michele Monina per Moralia, con un incipit apparentemente così bizzarro? Per dimostrare – se mai ce ne fosse ancora bisogno – che aveva ragione Vittorio Orefice, tra i più noti e navigati commentatori politici della Prima Repubblica: la politica è una scienza esatta.

In politica, dunque, nulla accade per caso. Il che significa che quella che potremmo battezzare l’operazione-Vannacci – un testo autopubblicato da un autore sconosciuto, che balza agli “onori” della cronaca e, subito dopo, in vetta alle classifiche di vendita – è un’operazione studiata a tavolino, con precise finalità politiche. Quali? Ometterò di rispondere: non intendo far torto all’intelligenza di nessuno.

Non serve che io dica che Monina ha ragione, che analisi e tesi sono corrette, che, fino a pochi anni fa, un pamphlet come il suo, lungi dal risultare necessario, sarebbe stato considerato inutile. Lo hanno già detto, sia pure indirettamente, molti commentatori più autorevoli di me.

Due nomi su tutti: il linguista Massimo Arcangeli – che, prima sul Fatto Quotidiano e poi sul Corriere della Sera – ha fatto le pulci al “miserabile volume di Vannacci”: “un’infantile accozzaglia di luoghi comuni, malamente assemblati, con l’aggravante di interi passi prelevati più o meno alla lettera da svariate fonti, neanche citate”; un saggio “scritto coi piedi”, che racconta “il mondo osservato con gli occhi di un razzista, di un sessista, di un omofobo della peggior specie”; e Gianni Cuperlo, il quale – su Domani – condividendo l’idea che sia “difficile credere all’opera di un libero battitore”, sottolinea come “siano stati scelti con cura tempi e modi”. Il timore più grande? Che “questo indimenticabile volume rifletta il clima del tempo e fosse solo per questo, sarebbe compito della sinistra e del suo ceto intellettuale interrogarsi su cosa abbia reso possibile un evento simile”.

Non me ne voglia Cuperlo se metto tra i colpevoli del degrado della nostra democrazia sia la cinica realpolitik di certa pseudo-sinistra, che l’evanescenza di un ceto pseudo-intellettuale, “liberal” a parole ma “liberale” nei fatti. Se gli uni e gli altri fossero stati “veri” e non “pseudo”, forse non sarebbe stato così facile ridurre la nostra democrazia a un’imbarazzante caricatura di sé stessa.

Anche Monina parla, assai opportunamente, di zeitgeist: spirito dei tempi. Spirito che vede caratterizzato dalla “moda crescente […] di voler trovare spiegazioni e quindi poter immaginare risposte adeguate a tutto quello che avviene nel mondo, anche in assenza di compe­tenze, conoscenze reali e preparazione”. E, così, ogni giorno, milioni di persone vengono spinte a “credere alle tesi più assurde e bislacche, dalle scie chimiche ai microchip sottocutanei, alla grafite contenuta nei vaccini”. Tesi “spesso veicolate da personaggi mediatici discutibili e incredibilmente assurti al ruolo di guru”. Guru che – come Vannacci – riescono a “mettere una dietro l’altra tutta una serie di ovvietà rozze, grezze, dotate di sfumature di razzismo, sessismo, omofobia, antiambientalismo, volendo anche luddismo, e creare un consenso ampio e immediato”.

Dire che Monina ha ragione, dunque, sarebbe più o meno come dire che l’acqua bagna, il sole scalda e il vento scompiglia i capelli. Quello che dobbiamo chiederci, semmai, è: in questo tempo che non solo sragiona, ma fa del suo sragionare una fede e un’arma di distrazione e distruzione di massa, c’è ancora spazio per ragione, ragioni e ragionamenti?

Temo, purtroppo, di no. E la drammatica cronaca di queste ultime ore ne è l’ennesima, tragica, conferma. Esistono solo due categorie di persone che hanno la faccia tosta di sostenere che il pianeta non è seduto su una polveriera e non sta rischiando l’Apocalisse: gli imbecilli e gli incendiari prezzolati e in malafede. Il problema è che il numero dei non imbecilli e dei non incendiari si riduce, pesantemente, di giorno in giorno e rappresenta, ormai, una minoranza sempre più esigua. E, fin troppo, silenziosa.

Il libro di Vannacci – osserva Monina – è un “lungo e ripetitivo pamphlet nel quale distingue il normale dal diverso, spiegando come prendere le distanze dall’altro”. Ha ragione. E la chiave di una proposta politica, tanto folle quanto – ahimè – seducente, è tutta racchiusa nell’etimologia dell’aggettivo “normale”. Aggettivo che deriva dal sostantivo latino “norma”, il cui significato italiano è “regola”, “norma”, “legge”. Normale, dunque, è colui che corrisponde a regole, norme e leggi. Regole, norme e leggi che – al di là di ciò che raccontano affascinanti narrazioni millenarie – sono sempre state scritte da uomini. Non voglio offendere il credo di nessuno, ma non risulta che alcuna divinità abbia mai impugnato scalpello, penna o tastiera per vergare di proprio pugno le tavole, i libri o i codici che le sono stati attribuiti. Ispirato o no, in buona o cattiva fede che sia, dunque, il Legislatore è sempre un uomo. Uomo che, da che mondo è mondo, scrive leggi che vanno a vantaggio di qualcuno e a scapito di qualcun altro. Nei casi migliori, involontariamente. In quelli peggiori, dolosamente. Troppo pochi i primi, troppi i secondi.

“È la democrazia, bellezza!”, si potrebbe osservare. Vero. Di vera democrazia, però, si tratta solo se il potere legislativo è nelle mani di organismi realmente rappresentativi della volontà popolare. Se, infatti – come accade in Italia da almeno trent’anni – tra leggi elettorali-truffa (che, in nome della “governabilità”, fanno di tutto per trasformare le minoranze in maggioranze e mantenerle, il più a lungo possibile, al potere) e un’astensione che non smette di crescere, la democrazia si trasforma, di fatto, in un’oligarchia sempre più ristretta, è evidente che le leggi non faranno altro che tutelare i pochi potenti e i loro “compagni di merende”, a discapito dei molti impotenti, “figli di nessuno”.

La vera “dittatura della minoranza”, dunque, non è quella di cui vaneggiano i Vannacci di ogni latitudine, ma quella delle forze che, pur essendo minoranza in piazza, grazie a oscene leggi elettorali ad hoc, diventano maggioranza nei palazzi del potere.

Risultato: l’anormalità diventa normalità e stabilisce, a proprio capriccio, cosa/chi sia normale e cosa no. Ed ecco, allora, che – come ricorda Monina – le femministe diventano “fattucchiere”; gli ambientalisti, “gretini” e “talebani”; gli omosessuali, “non-normali” e malati; i migranti, “invasori”. Definizioni che integrano la vulgata che vuole i buoni “buonisti”; chi invoca la pace, “ingenuo” e “vigliacco”; chi chiede giustizia, “giustizialista”; chi rifiuta un salario da fame, “fannullone”; chi chiede un aiuto per arrivare a fine mese “mantenuto”.

Qual è, allora, il mondo non-al-contrario? Semplice: quello popolato da maschi, italiani (per “razza”, non cittadinanza), bianchi, cattolici (possibilmente non cristiani), nazionalisti, fascisti, conservatori, eterosessuali (in pubblico, almeno), patriarchi di famiglie delle quali sono i monarchi assoluti, le cui donne sono ridotte ad api operaie (possibilmente in casa e non fuori), fattrici e allevatrici di figli, e cortigiane votate a soddisfare la libido del loro unico re. Re che, ovviamente, ha tutto il diritto di farsi titillare il “batacchio” (termine vannaccista) da quante più femmine riesce ad avvicinare. Del resto, si sa: l’uomo è cacciatore, la donna preda. Pare sia una legge di natura. Né osi la femmina ledere, in alcun modo – dire di no, alzare la testa o la voce, disobbedire, per non parlare di flirtare, tradire o lasciare – la maestà del suo re o la reazione sarà spietata, come la cronaca quotidiana dimostra, con ributtante periodicità.

Non so dire se esistano un “mondo giusto” e un “mondo sbagliato”. Credo che – parafrasando De André – una distinzione del genere potrebbe farla soltanto chi fosse certo di “raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”. Certezza che a me manca. Non al generalissimo, però. Evidentemente, Dio in persona deve avergli rivelato verità esclusive, taciute al resto dell’umanità.

Non esistono un “mondo giusto” e un “mondo sbagliato”, ma di certo esiste un modo sbagliato di stare al mondo. Quale? Pretendere che esso assuma, esclusivamente, la forma che intendiamo dargli noi. Che venga, cioè, edificato – o, meglio: riedificato – a nostra immagine e somiglianza.

Una cosa, però, di questa impostazione, non è chiara: cosa succede quando, come accade oggi, nel mondo c’è ben più di un Vannacci? La visione di quale dei tanti “generali” deve prevalere? Chi lo decide? E perché? E cosa succede se uno dei Vannacci in circolazione considera il mondo vagheggiato dal Vannacci ausonico incompatibile con il proprio ideale di mondo? Quale genere di ordalia stabilirà a chi, tra i contendenti, Dio dà ragione? E chi si sottoporrà a quell’ordalia? I Vannacci in prima persona o la solita carne da cannone fornita da generazioni di coscritti, arruolati al grido “armiamoci e partite!”?

A questo proposito, mi viene in mente una vecchia striscia di fumetti: Schulz, se non ricordo male. “Giochiamo a buoni e cattivi?”, propone uno dei personaggi e, alla risposta: “Sì, ma come si gioca?”, replica, serafico: “È facile: i buoni dicono chi sono i cattivi!”.

Nel nostro caso – come appare sempre più evidente a ogni pagina del pamphlet di Monina – la situazione è infinitamente più folle e pericolosa: non sono, infatti, i buoni a dire chi sono i cattivi. Sono i cattivi a dire chi sono i buoni e a predicarne l’ostracismo, la riduzione a sudditi, privati dei diritti fondamentali, e in qualche caso, addirittura, la soppressione.

Il verso giusto? Secondo me (spero che – vista la sua formazione – Monina condividerà) è uno solo: lo sberleffo simbolo, da più di cinquant’anni, di una delle più grandi rock-band della Storia. Lo dico, nella speranza che, presto, una linguaccia seppellisca nel ridicolo certe tesi. Tesi così folli, amorali e incivili che, se il mondo girasse davvero per il verso giusto, qualunque essere non mono-neuronale si rifiuterebbe di lasciarle bivaccare nell’anticamera del cervello.

Vannacci

Michele Monina, Il mondo per il verso giusto. Le cose come stanno, Moralia, 2023.