Siamo in grado di capire l’Intelligenza Artificiale?

intelligenza artificiale

Voi siete il sale della terra. Ma, se il sale diventa insipido, con cosa sarà salato?”

Questo versetto del Vangelo di Matteo a me pare particolarmente significativo, anche quando riflettiamo su un tema rilevante e urgente – drammaticamente urgente, a mio avviso – come l’Intelligenza Artificiale.

Un eccesso di ottimismo pervade il dibattito riguardo a questo fenomeno che crediamo futuro mentre, in realtà, è già presente nella vita di tutti noi. C’è l’idea che l’uomo riuscirà a dominare la sua creatura (a me non risulta che ci sia mai riuscito e a voi?) e a impedirle di detronizzarlo, trasformandolo da creatore in creatura, da strumentista in strumento, da padrone in servo.

Personalmente, lo confesso, sono tutt’altro che ottimista. Non perché io sia, di natura, pessimista. Non lo sono mai stato. Se appaio pessimista, è solo perché sono realista: cerco di guardare al di là delle apparenze, con un approccio critico, e conosco la natura umana.

Una cosa mi preoccupa più di ogni altra: il fatto che – per proseguire nella metafora evangelica – ci siamo, per così dire, desalinizzati. Notevolmente desalinizzati. E non da oggi, purtroppo.

A questo proposito, non posso non ricordare quanto scriveva Tullio De Mauro già dieci anni fa: «Solo un po’ meno di un terzo della popolazione italiana ha i livelli di comprensione della scrittura e del calcolo ritenuti necessari per orientarsi nella vita di una società moderna». 

Secondo De Mauro, la percentuale degli italiani che comprende i discorsi politici o che capisce come funziona la politica italiana «è certamente inferiore al 30%». Meno del 30%: vale a dire uno su tre. Un quadro tutt’altro che confortante.

Ma De Mauro non era certo l’unico preoccupato per questo stato di cose.

Nel febbraio 2017 – un mese dopo la morte di De Mauro – infatti, 600 tra rettori, docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, costituzionalisti, sociologi, linguisti, matematici, economisti e persino neuropsichiatri hanno scritto una lettera al Presidente del Consiglio, al Ministro dell’Istruzione e al Parlamento per chiedere “interventi urgenti” per rimediare alle carenze degli studenti. Non sei, non sessanta, non cento ma 600!

«Alla fine del percorso scolastico – hanno scritto – troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente». Alla fine del percorso scolastico, non all’inizio. «Da tempo – si legge ancora nella lettera – i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare».

Nel tentativo di porre rimedio a questo stato di cose, «alcune facoltà – scrivono i 600 – hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana».

Le università – non le scuole medie o le superiori! – sono state costrette a attivare corsi di recupero della lingua italiana, per evitare errori da terza elementare!

E chi sono questi “studenti modello”? Sono i medici, gli avvocati, gli ingegneri, gli architetti, i giuristi, i giudici, i parlamentari di oggi e di domani: tutta gente che, all’università, commette errori appena tollerabili in terza elementare!

La prima domanda sulla quale vorrei invitare tutti noi a riflettere è: è a queste persone che stiamo affidando la scrittura degli algoritmi dell’intelligenza artificiale?

Insipidi da sempre

Un po’ insipidi, a dire la verità, lo siamo sempre stati. Perché, al di là dei nostri proclami, sappiamo benissimo chi siamo. Gli uomini – scriveva Machiavelli già cinquecento anni fa – sono “ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno”.

Ben prima di Machiavelli, però, qualcun altro ci conosceva ancora meglio dell’autore de Il Principe. Pensiamo ai Dieci Comandamenti, ad esempio. Tema sul quale propongo una breve riflessione logica, non teologica.

Ben 7 comandamenti su 10, infatti, sono “negativi”. Ci comandano, cioè, di non fare qualcosa: non nominare il nome di Dio invano, non ammazzare, non fornicare, non rubare, non dire false testimonianze, non desiderare la donna d’altri, non desiderare la roba d’altri.

Chiunque li abbia scritti – ripeto: il mio è un ragionamento puramente logico – conosceva perfettamente l’animo umano. E sapeva benissimo che, se siamo lasciati liberi di seguire la nostra natura, siamo sacrileghi, assassini, fornicatori, ladri, falsi, bramosi delle donne e delle cose degli altri.

Ma sapeva, secondo me, una cosa ancora più grave: che amare è contro la nostra natura. Del resto, se così non fosse, non ci sarebbe bisogno di un comandamento che ci chiede di amare il nostro prossimo come noi stessi. Vale a dire, nella forma massima dell’unico amore che conosciamo e pratichiamo davvero: quello nei confronti di noi stessi, appunto.

Libertàfobia

La nostra natura, dunque, è debole, avida e pavida. Ma ha anche un’altra caratteristica: non ama particolarmente la libertà. Dichiara di amarla, è vero. Nella pratica, però non lo fa. Perché la libertà implica la responsabilità. Una tendenza che ribattezzato “libertàfobia”.

Cosa pensiamo davvero della libertà, ce lo spiega, magistralmente, Dostoevskij, in alcune pagine straordinarie pagine che sono conosciute come La leggenda del grande inquisitore.

La tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene ed il male”.

Nulla è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso”.

L’abuso della delega

Da questo nostro conoscere noi stessi, deriva una pratica che noi esseri umani abbiamo iniziato a seguire da subito: il ricorso alla delega.

Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso – scrive ancora Dostoevskij – che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura”.

Ben prima di Dostoevskij, un ventenne di metà Cinquecento – Étienne de La Boétie – nel suo Discorso sulla servitù volontaria aveva già osservato che “la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero”.

Per il principio di non contraddizione, quindi, dato che non la otteniamo, significa che non la desideriamo abbastanza.

Delegati di ieri e di oggi

Questa libertàfobia, storicamente, sublima il ricorso alla delega. Ed ecco alcuni tra i principali delegati della Storia dell’umanità: Dio, il Re, la Spada, il Denaro, la Legge, la Politica, la Scienza, la Tecnica e, oggi, la Tecnologia. E l’Intelligenza Artificiale a me sembra un nuovo – e straordinariamente sofisticato – delegato. Non so se ci avete fatto caso ma, ieri, chiamavamo il computer “cervello elettronico”, “cervellone”: due definizioni che la dicono lunga su quella che consideravamo (e ancora consideriamo) la differenza tra lui e noi. A suo favore, evidentemente. Oggi, con lo stesso spirito, evochiamo l’Intelligenza Artificiale: due parole che, a mio avviso, nascondono pericolosi tranelli. Tranelli che l’etimologia – che, come dice Zagrebelsky, è una grande maestra di vita – rivela.

Intelligenza, infatti, significa saper legare le cose tra loro, saper leggere dentro, scendere in profondità, cogliere il senso. Tutte cose che, ahimè, non facciamo più. Non sappiamo leggere. Non scendiamo in profondità: il nostro, al contrario, è il tempo della superficialità, dell’approssimazione, della rinuncia alla verità. Non sappiamo collegare le cose. E, soprattutto, non sappiamo scegliere.

La parola artificiale avrebbe una natura positiva (“arte”, “professione”, “mestiere”) ma noi siamo bravissimi a sporcare le parole, anche le più belle. Pensiamo solo a quello che stiamo facendo alla parola pace. E, così, artificiale, acquisisce un’accezione fortemente negativa: “artificio”, “astuzia”, “raggiro”. Non solo: se prendiamo il dizionario di greco ci accorgiamo che si tratta di un calco di “téchne” e troviamo altri due significati negativi: “tranello” e “inganno”.

Di qui, il mio invito a guardare alla vera natura delle cose. Natura che, un po’ troppo facilmente, diamo per scontata.

Certo che il ruolo dell’uomo nei confronti delle nuove tecnologie – e dell’Intelligenza Artificiale, in particolare – è fondamentale. Ci mancherebbe altro. L’insidia più grande che, da sempre, i “delegati” o il “Potere” incarnano è proprio quella di cercare togliere l’uomo dal centro di sé stesso. È evidente, quindi, che la coscienza è imprescindibile. Con le mie mani, del resto, posso abbracciarvi, cucinare per voi, accarezzarvi o anche strozzarvi: cosa vogliamo fare, per questo? Tagliare le mani a tutti?

Il punto è che noi continuiamo a delegare perché delegare ci rassicura. Dato che non vogliamo il peso della responsabilità della scelta, deleghiamo qualcun altro a scegliere per noi. E, oggi, l’ultimo dei convitati di pietra, l’ultimo dei delegati è proprio quello che definiamo Intelligenza Artificiale. Ma che, come sosteneva giustamente qualcuno che mi ha preceduto – credo che fosse il Professor Bernabè – di intelligente ha ben poco. E, in effetti, di intelligente, nel senso autentico della parola, non ha nulla. Ha, però, una velocità stratosferica e la capacità di comporre elementi che, nemmeno nell’arco di cento vite, noi umani riusciremmo a comporre.

Io faccio lo scrittore e il giornalista e, grazie a tecnologie come ChatGPT, chiunque può fare la stessa cosa, con risultati, apparentemente, identici. Non a caso, qualche giorno fa, John Grisham ha portato in tribunale ChatGPT che usa i suoi romanzi per addestrare l’algoritmo, violando, così, il copyright.

Rassicurati ma deresponsabilizzati

Questa delega, che ci rassicura così tanto, allo stesso tempo – ed è proprio questo l’aspetto più critico – ci deresponsabilizza, ogni giorno di più. Non c’è bisogno di ipotizzare chissà quali scenari. Basta pensare, ad esempio, alle nostre automobili, che sono ormai quasi tutte dotate dei cosiddetti “sistemi avanzati di assistenza alla guida”: controllo della velocità, frenata automatica di emergenza, rilevatore della stanchezza del conducente, avviso di collisione con i veicoli, monitoraggio degli angoli ciechi, mantenimento della corsia di marcia, riconoscimento della segnaletica stradale. Tutte tecnologie che danno un contributo fondamentale alla sicurezza ma che, allo stesso tempo, abbassano notevolmente la nostra soglia di attenzione al volante. Ci rassicurano, appunto, ma ci deresponsabilizzano.

Tutto questo, già oggi. Da domani mattina, utilizzeremo quelle che chiamiamo auto “autonome” o “connesse”, che, personalmente, preferisco chiamare “driverless”, vale a dire “senza conducente”: una definizione, quella inglese, che mi sembra più chiara. Cosa succederà da domani? Che le nostre auto non avranno più né volante né cambio, né pedali; il sedile dell’attuale conducente si girerà verso i sedili posteriori, e le auto si trasformeranno in altrettanti salottini mobili. Naturalmente guidati da sistemi di intelligenza artificiale. Il punto è: se la scrittura degli algoritmi sarà affidata a quei signori dei quali ho parlato prima – quelli che, all’università, commettono ancora errori appena accettabili in terza elementare – cosa succederà sulle nostre strade?

Ma anche se non saranno loro a scrivere gli algoritmi, da chi e in che modo verranno affrontati i temi di ordine morale, giuridico, assicurativo, proprietario relativi all’operatività dei software di intelligenza artificiale e alla gestione dei dati che essi registrano?

Ad esempio: di chi saranno i dati prodotti dall’attività dell’auto con la quale andrò a trovare i miei bambini al mare? Miei? Del produttore del software? Di chi ha scritto gli algoritmi? Della casa automobilistica? Del rivenditore dell’auto?

E che uso verrà fatto di tutti questi dati? Chi saprà – ad esempio – che, invece di andare a trovare i miei bambini, sono andato a trovare la signora della città vicina, perché anche io, come molti, sono un fornicatore?

E tutte queste cose che valenza avranno? Non parlo del piano del gossip. Parlo di piani ben più rilevanti: valori, convivenza civile, diritto alla privacy, diritto all’oblio…

E chi sceglierà se la mia auto driverless dovrà investire il bambino che, all’improvviso, sbuca fuori dalle macchine per inseguire il suo pallone o la vecchina che, con grande cautela, sta attraversando la strada sulle strisce pedonali, perché, in fondo, la vita di una vecchina è più sacrificabile di quella di un bambino? O, forse, l’auto driverless deciderà di non sacrificare né la vecchina né il bambino ma di sacrificare me, mandandomi fuori strada, mentre mi trovo, incolpevolmente, alla guida di un mezzo che, in realtà, non sto guidando, dal momento che qualcun altro lo sta guidando al mio posto?

Ma la cosa che mi preoccupa più di tutte è che, mentre i vecchi delegati – Dio escluso – erano tutte realtà fisiche, l’Intelligenza Artificiale di fisico non ha nulla. Non è visibile. Non è percepibile. Non è identificabile. E, oltretutto, è infinitamente più seducente dei delegati precedenti, in quanto ci appare straordinariamente munifica. Quante volte esaltiamo le molte meraviglie delle nuove tecnologie, che ci permettono di fare cose, fino a ieri, impossibili. Una volta – tanto per dirne una – una lettera avrebbe impiegato settimane se non mesi ad attraversare l’Oceano. Oggi possiamo parlare, in tempo reale, con qualcuno che si trova dall’altra parte del mondo, guardandolo negli occhi.

E, dato che tutto ci sembra facile, ci sembra anche tutto bello. E visto che siamo tutti figli della cultura greco-latina, tendiamo a considerare “bello” e “buono” sinonimi. “Kalòs kai agathòs”, dicevano, appunto, i Greci. E, quindi, una cosa che ci appare bella ci sembra anche che sia buona. E ci convinciamo che è buona. Cosa che non è affatto detta. E che rende il nostro interlocutore virtuale un delegato infintamente più pericoloso di quelli ai quali ci siamo affidati nei secoli e anche negli anni passati.

Dio si può rifiutare, il tiranno si può abbattere, la spada si può sconfiggere, l’oro si può rubare, la legge si può cambiare, ma come si lotta contro un nemico invisibile? Che, tra l’altro, si comporta come se fosse il nostro migliore amico? La prima cosa da fare, per poter combattere un nemico, è capire che esiste e identificarlo: dire “è lì!”, “è lui!”, “è quello!”, “è quella cosa!”. Questo, però, non è più possibile.

Anche io, dunque, come Laocoonte, “Timeo Danaos et dona ferentes”. Temo tutti coloro i quali portano doni. Soprattutto se non si capisce la ragione per la quale li portano. Come recita una saggia regola di vita sul web: “se non paghi per il prodotto, allora il prodotto sei tu”. E, quindi, noi stiamo diventando il prodotto di una realtà che dovremmo controllare ma che non abbiamo gli strumenti per controllare. Anche perché siamo stati separati. Non siamo più un soggetto unico. Siamo stati parcellizzati in miliardi di soggetti. Se il “divide et impera” aveva un senso, dal momento che ci hanno divisi, impereranno molto più facilmente.

L’alba del nuovo millennio, per come la vedo io, è oscura e minacciosa. E credo che basti guardarsi intorno per capirlo. Personalmente, però, mi preoccupano, soprattutto, due cose: il fatto che non siamo mai stati tanto insipidi come siamo oggi e, soprattutto, il fatto che non vedo chi ci possa risalinizzare. Non in tempi brevi, almeno. E quindi, rispondo alla domanda del versetto di Matteo che dà il titolo a questo incontro, con un’altra domanda. La domanda che San Pietro rivolge a Gesù e che io affido alle vostre coscienze: “Signore, da chi andremo?”.