Enough is enough

scrittura

Basta. Ci ho pensato a lungo e ho deciso: mi fermo qui. Dopo 25 anni di scrittura e 50 titoli pubblicati per alcuni tra i più importanti editori italiani, smetto di scrivere.

Una decisione né facile né indolore. Inevitabile, però, se non voglio continuare a dibattermi in un maelstrom di tensione, delusioni, frustrazioni e rabbia, che rischia di trasformarsi in depressione.

Lo devo alla mia famiglia, ai miei figli, ai pochi veri amici, alle persone che mi vogliono bene. E anche a me stesso.

Andare avanti così non ha più senso. Non con la mia firma, almeno. Dopo tutti questi anni e tutti questi libri è fin troppo chiaro che l’editoria mi vuole come ghostwriter ma non sa che farsene di me come autore. Vuole la mia penna e le mie idee, non il mio nome.

Il fatto è che non cerca scrittori. Cerca bei nomi e belle facce: attori, artisti, sportivi, personaggi della tv, del mondo dello spettacolo, della politica, degli affari, del glamour, della cucina, dei social… Più follower hai, più il tuo potenziale commerciale è alto, più sei corteggiato, vezzeggiato, esaltato, pubblicato, promosso, recensito, venduto, premiato. Il tutto, con effetti paradossali (“a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza ma a chi non ha verrà tolto anche quello che ha”) e nefasti per l’editoria e per il ruolo e il rilievo che dovrebbe avere.

Trovati nome o faccia (meglio se entrambi), si cerca la penna più adatta, si forma la coppia con l’appeal più alto et voilà il gioco è fatto. Il resto lo faranno promozione, ospitate tv, talk, salotti buoni, cerchi magici, apparentamenti politici più o meno strumentali, recensioni più o meno compiacenti, premi, più o meno concordati.

Scrittura, narrativa, letteratura, poesia, arte – ammesso che esistano ancora – non c’entrano affatto. È l’industria, bellezza. Né più né meno di quella che produce rasoi usa e getta, assorbenti igienici o cibi in scatola. E, come ogni altra industria, vive di mercato e fa di tutto per rimanere sul mercato. Mercato che, come ogni mercato, ha regole semplici ma inalterabili, inviolabili, inappellabili.

Di tanto in tanto, spunta qualche eccezione e tutti gridano al miracolo, cogliendo al volo l’occasione per mettersi cuore e coscienza in pace. Peccato, però, che come ogni eccezione, quel miracolo non faccia che confermare la regola. Fa molto di peggio, in verità, visto che fornisce a tutti una prova – falsa ma rassicurante – del fatto che chi la pensa come me (la quasi totalità degli addetti ai lavori, in realtà, anche se la maggioranza di essi preferisce di gran lunga sfruttare il sistema invece che provare a cambiare le cose) esagera e che le cose non stanno davvero così.

Esagero? Forse. O forse non tutti sanno che, l’anno scorso, nel nostro Paese, sono stati pubblicati più di 85mila nuovi titoli. (Nel 2021, erano stati 90mila). Più di 230 al giorno; quasi 10 ogni ora. Mi auguro che non ci sia chi pensa che escano 10 Gadda, Pasolini, Calvino o Tabucchi ogni ora. Secondo voi, quanti di questi 85mila libri meriterebbero davvero di essere pubblicati e letti? E come facciamo a sapere quali se, per scoprirlo, dobbiamo prima disboscare un’impenetrabile giungla di decine di migliaia di titoli inutili?

Decine di migliaia di titoli nuovi all’anno, in un Paese nel quale non legge praticamente nessuno? Non sembra folle anche a voi? Per come la vedo io, è come inondare di cappelli un Paese nel quale la stragrande maggioranza delle persone nasce senza testa, illudendosi che riempire di cappelli le vetrine di negozi, grandi magazzini e centri commerciali basti per far spuntare la testa sulle spalle di qualcuno! Follia su follia. Anche perché, a guardarli bene, si tratta di cappelli piuttosto bruttini, visto che un libro su tre non vende neanche una copia (o, al massimo, ne vende una) e meno di 35mila i libri riescono a raggiungere le 10 copie.

Non capisco e non mi adeguo. E, dunque, non mi resta che fermarmi qui.

Mi arrendo? Se preferite metterla così, fate pure. Venticinque anni di scrittura e 50 titoli pubblicati, però, mi sembrano testimoni più che attendibili del fatto che non mi sono mai arreso.

Smetto per gelosia, invidia, rabbia, rodimento interiore? Niente affatto. Come ghost, le soddisfazioni – recensioni entusiastiche, vendite, classifiche, premi – non mi sono mancate, non mi mancano e sono certo che non mi mancheranno nemmeno in futuro.

Lo faccio perché non condivido nulla di questo “mondo” ma non ho né gli strumenti né la forza di cambiarlo. E so che Don Chisciotte è tanto sublime in letteratura quanto patetico nella vita reale.

Ma, soprattutto, lo faccio perché chi scrive, scrive per essere pubblicato. E chi pubblica, pubblica per essere letto. Chiunque dica che non è così, o non sa quello che dice o si prende gioco di voi. Ha ragione Ottavio Fatica: “Perché sia letteratura, occorre leggerla. È il lettore a farla vivere: rivivere ogni volta”. Se nessuno legge, dunque, non c’è letteratura. E nemmeno narrativa, per scendere a un livello decisamente più prossimo al mio. Una pagina non letta è come un quadro non visto, una musica non ascoltata, un piatto non gustato: niente. Semplicemente, non esiste.

La scrittura è come l’amore: o lo si fa in due – chi scrive e chi legge – o non è amore: è onanismo.

Gli unici miei due romanzi firmati da me hanno venduto 400 copie ciascuno. Il che significa che non li ha letti praticamente nessuno. Dunque, non esistono. E io con loro. Che senso ha, allora, passare la vita a cercare di dar vita a qualcosa che non prenderà mai vita? Nessuno.

Conosco i miei pensieri: vivono con me da sempre. Alti o bassi, belli o brutti, interessanti o insignificanti sono miei e non ho bisogno di metterli sulla carta. Se lo faccio, è solo per il desiderio che li legga qualcun altro, nella speranza che diano a lui almeno una piccola parte di quanto hanno dato a me. Dato che questo non accade, li lascerò dove sono e tornerò a leggere, strimpellare, scrivere canzoni, andare al cinema e fare ciò che amo fare con le persone che amo. In una parola: vivere.

Se, al ghost, giungerà qualche proposta interessante, la raccoglierò, come ho sempre fatto. Altrimenti – appena avrò finito questa sorta di lettera aperta a mia madre alla quale sto lavorando – mi limiterò a collaborare con le testate che ospitano le mie riflessioni e a regalare agli amici quelle parole che – bontà loro – non smetteranno di venirmi a trovare.