Una sineddoche ci seppellirà

Tanto tuonò che piovve. Anzi: diluviò. Mi riferisco alla catastrofe climatica che si sta per abbattere sulla nostra, ormai agonizzante, democrazia. La colpa? Della sineddoche. Sineddoche, sì, avete letto bene.
Dal greco συνεκδοχή, derivato di συνεκδέχομαι “comprendere più cose insieme”: “figura retorica consistente nel trasferimento di significato da una parola a un’altra in base a una relazione di contiguità intesa come maggiore o minore estensione, usando per es. il nome della parte per quello del tutto o viceversa (prora o vela per nave; vitello per pelle di vitello), il nome del genere per quello della specie o viceversa (mortali per uomini; felino per gatto), o anche un termine al singolare invece che al plurale o viceversa”.
Così il Dizionario Treccani. L’Enciclopedia Treccani aggiunge che questa figura retorica è il risultato di un “processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo avere mentalmente associato due realtà differenti ma dipendenti o contigue logicamente o fisicamente, si sostituisce la denominazione dell’una a quella dell’altra”.
Sputtanarne uno per sputtanarne cento
“Processo psichico e linguistico” tanto affascinante in letteratura e poesia, quanto devastante in logica, soprattutto quando – come accade il più delle volte – sostituendo, con la denominazione, anche il contenuto, trasformiamo la sineddoche in sillogismo. Perché? Semplice: perché, prendendo una parte per il tutto, basta sputtanare quella parte, per sputtanare il tutto. Minimo sforzo, massimo risultato. Più devastante di così!
Ebbene, che ne siamo consapevoli o no, è proprio il processo psichico alla base della sineddoche che, fornendoci rappresentazioni completamente falsate della realtà, ci ha condotti al capezzale della nostra democrazia. Democrazia alla quale – a meno di un vero e proprio (improbabilissimo) miracolo – verranno presto “staccate le macchine”.
La manovra a tenaglia del revisionismo
È cominciato tutto decenni fa, quando due velenose formulazioni hanno cominciato a serpeggiare, diffondendosi sino ad accerchiare l’opinione pubblica in una sorta di manovra a tenaglia.
La prima è formata dalla coppia: “la Resistenza è stata una guerra civile” e “anche i partigiani ne hanno fatte di cotte e di crude”. Come dire: “parlano tutti male dei poveri fascisti ma i partigiani si sono comportati esattamente come loro, se non peggio”. Il che equivale a mettere sullo stesso piano oppressori e oppressi, chi negava, brutalmente, la libertà e chi combatteva per ristabilirla. Risultato? Si giustificano (e riabilitano) i primi e si demonizzano (e screditano) i secondi.
Sebbene Claudio Pavone – ex-partigiano, storico, docente universitario e saggista – fosse in buona fede quando diede alle stampe il suo “Una guerra civile” (Bollati Boringhieri, 1991), pochi mesi dopo – in un Paese scosso, confuso e avvelenato dal ciclone Tangentopoli – il suo “saggio storico sulla moralità nella Resistenza” venne strumentalizzato e finì col fornire una spinta decisiva a quell’ondata di revisionismo anti-antifascista (fino ad allora appannaggio esclusivo dei neo-fascisti) che avrebbe aperto la strada all’ingresso di Alleanza Nazionale (Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale) al governo del Paese, nel primo esecutivo (1994) guidato da Silvio Berlusconi. Per la prima volta in quasi cinquant’anni di storia repubblicana, un partito di ispirazione fascista tornava a governare l’Italia.
La seconda: “il Fascismo ha fatto anche cose buone”. Un luogo comune nel quale la parola chiave è “anche”. Senza di lei, infatti, quell’affermazione sarebbe stata, probabilmente, respinta (soprattutto nel quarantennio che separa la nascita della Repubblica da Tangentopoli) e la manovra a tenaglia sarebbe saltata. Grazie a quell’“anche”, invece, il luogo comune ha funzionato alla grande, sostenuto da una overdose di falsi storici che sono riusciti a sopravvivere a qualunque smentita, per quanto documentata. Un ultimo esempio per tutti, il recente “Mussolini ha fatto anche cose buone: le idiozie che continuano a circolare sul Fascismo”, firmato da Francesco Filippi e pubblicato da “Bollati Boringhieri” (2019).
Il Fascismo è eterno
Mentre la morsa di questa subdola tenaglia si stringeva intorno all’opinione pubblica italiana, si moltiplicavano le voci di quanti – inclusi storici e intellettuali accreditati – tuonavano (e tuonano ancora) che il Fascismo non sarebbe tornato. La Storia non si ripete: argomentavano (e argomentano). Mai nello stesso modo, comunque. Come se – ed è qui l’errore (non sempre in buona fede, temo) – per Fascismo, si dovesse intendere, unicamente, la forma (parte) che esso ha assunto nel “ventennio” 1922-1945 e non l’insieme (intero) delle idee di cui la forma-ventennio è solo una delle molte incarnazioni possibili. Mi riferisco alla “lista di caratteristiche tipiche” di quello che Umberto Eco ha definito “l’Ur-Fascismo” o “Fascismo eterno” (La Nave di Teseo, 2017). E che, proprio in quanto eterno, può – evidentemente – reincarnarsi in qualunque momento storico, in qualsiasi angolo di mondo. Italia inclusa.
Smemorati e analfabeti
Ed ecco, un’altra sineddoche che vira al sillogismo (fallace, ovviamente): dato che “quel Fascismo” (parte) non tornerà, vuol dire che “nessun Fascismo” (intero) tornerà.
Una deriva – del tutto priva di ragioni e di logica – resa possibile anche dal concorso di due, inquietanti, fattori:
- la memoria da scimpanzè del nostro Paese. Non è un insulto all’animale: è un dato di scienza. Pare, infatti, che – sebbene gli scimpanzè condividano con noi più del 98,7% del DNA – la loro memoria non vada oltre i 20 secondi. Ebbene, quella di troppi italiani arriva assai poco più in là, evidentemente;
- un livello formativo/culturale divenuto, di anno in anno, sempre più imbarazzante, che ha fatto crescere in maniera preoccupante analfabetismo funzionale (l’incapacità di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana) e analfabetismo di ritorno (“quota di alfabetizzati che, senza l’esercitazione delle competenze alfanumeriche, regredisce perdendo la capacità di utilizzare il linguaggio scritto per formulare e comprendere messaggi”: Treccani), precipitando il nostro Paese agli ultimi posti nelle graduatorie internazionali.
A questo proposito, permettetemi di ricordare, ancora una volta, due cose:
- le affermazioni, disperanti, di Tullio De Mauro che, nel 2016, scriveva: «Solo un po’ meno di un terzo della popolazione italiana ha i livelli di comprensione della scrittura e del calcolo ritenuti necessari per orientarsi nella vita di una società moderna».
Secondo De Mauro, la percentuale degli italiani che comprende i discorsi politici o che capisce come funziona la politica italiana «è certamente inferiore al 30%». Il che equivale a dire che 1 italiano su 3 non capisce come funziona la politica. Però vota.
- Nel febbraio 2017, 600 tra rettori, docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, costituzionalisti, sociologi, linguisti, matematici, economisti, neuropsichiatri hanno scritto una lettera aperta vertici delle nostre Istituzioni per denunciare che «da molti anni, alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». Errori appena tollerabili in terza elementare: c’è bisogno di aggiungere altro?
Completa il quadro la complicità – nella stragrande maggioranza dei casi dolosa – di social network sempre più ostaggio di fake news, camere d’eco e linguaggi d’odio. In un contesto di questo genere, importa poco che il Fascismo abbia già subito ben più di tre gradi di giudizio da parte della Storia e che la condanna emessa nei suoi confronti sia definitiva e inappellabile.
Poté più la corruzione della “strategia della tensione”
La seconda sineddoche che ha accompagnato l’ondata revisionista ha riguardato, travolgendoli, i partiti politici. “Tutti i cittadini – recita l’art. 49 della Costituzione – hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Per i nemici della democrazia (molti, ben preparati, ben organizzati e assai ben finanziati), era, dunque, fondamentale liberarsi, il prima possibile, dello strumento-partiti. E, grazie alla complicità di classi dirigenti tutt’altro che moralmente ineccepibili, la cosa fu molto più facile di quello che avrebbe dovuto. La corruzione, infatti, riuscì là dove la “strategia della tensione” aveva fallito. Classi dirigenti sempre più corrotte – in particolare (ma non solo) quelle della “Milano da bere” – fornirono, su un piatto d’argento, occasione e pretesto per sfoderare una nuova, dirompente, sineddoche sillogistica: la classe politica (parte) è corrotta, dunque, i partiti (intero) sono corrotti: leviamoli di torno.
Il “bambino” buttato via insieme all’“acqua sporca”
Non sarebbe servito a nulla filosofeggiare sul fatto che, non si butta via “il bambino” (lo strumento partito) con “l’acqua sporca” (politici corrotti). Chiunque avesse provato a sostenere che non ci si priva dello strumento fondamentale di una democrazia rappresentativa, solo perché se n’è fatto un pessimo uso (butteremmo uno Stradivari in un cassonetto, solo perché il violinista è un incapace?), sarebbe stato lapidato sulla pubblica piazza come “contro-rivoluzionario” e corrotto-difensore-di-corrotti. Non c’è niente da fare: ci sono momenti nei quali, provare a far ragionare la pancia della piazza, significa ritrovarsi con la testa sotto la ghigliottina.
La caduta del castello di carte (truccate)
All’improvviso (30 aprile 1993), quello stesso popolo che aveva osannato Bettino Craxi – elevandolo a Deus ex machina della politica italiana, e rivolgendosi a lui, implorando ogni genere di intercessione, concessione e favore – lo aspettò, infuriato, sotto il suo albergo. Trattenuta a stento da un cordone di polizia, la folla scaricò la sua rabbia sul Segretario socialista, accompagnandola con una fitta grandine di monetine.
In poco più di un anno (l’arresto che aveva dato il via a Tangentopoli – Mario Chiesa – era avvenuto il 17 febbraio 1992), l’intero sistema dei partiti crollava come un castello di carte, e uno dei politici più potenti del dopoguerra – uomo-simbolo dell’intero decennio Ottanta e Presidente del Consiglio dal ‘83 al ‘87 – veniva tirato giù da quel piedistallo dorato sul quale la stessa folla che lo aggrediva lo aveva innalzato. Da quel momento, in Italia, non si sarebbe più trovato un socialista. Era già successo. E sarebbe successo ancora.
Partiti giù, corruzione su
Facendo leva sulle innegabili ragioni di “Mani pulite”, i partiti politici (ribattezzati, dispregiativamente, “partitocrazia”) erano stati spazzati via e, così, i cittadini avevano perso l’unico strumento a loro disposizione per provare a incidere sulle scelte politiche che li riguardavano più direttamente. Lo Stradivari era stato suonato così male, che era stato dato alle fiamme a furor di popolo e media. Un rogo che – eliminando dalla scena i partiti – metteva in ginocchio la democrazia parlamentare, tra gli applausi di un’opinione pubblica che non si rendeva conto di quale fosse la vera posta in gioco. E che non era nemmeno interessata a capirlo, nauseata com’era dal malaffare. Malaffare che essa stessa aveva contribuito a creare, dato che non esiste un corrotto senza un corruttore.
Il sistema è morto: viva il sistema
Nessuno dei miracolosi effetti sbandierati dalla rivoluzione (fintamente) moralizzatrice si realizzò. Semplicemente, perché il vero obiettivo non era moralizzare il sistema/gruppo di potere ma sostituirlo con un nuovo sistema/gruppo di potere. La corruzione, infatti, non sparì. Al contrario: si allargò a dismisura, fino a contagiare ogni cellula dei corpi politici e amministrativi nazionali e locali di ogni angolo del Paese. Se, nella Prima Repubblica, pochissimi rubavano tantissimo, nella Seconda, tantissimi rubavano ogni volta che si presentava l’occasione di farlo.
Nel frattempo – ed è questo l’unico vero obiettivo raggiunto da quella rivoluzione (e, probabilmente, l’unico realmente perseguito dai suoi ideologi) – i partiti erano scomparsi dalla scena. Al loro posto, consigli di amministrazione (nel “migliore” dei casi) e comitati d’affari (nel peggiore), interessati unicamente a spartirsi – manuale Cencelli alla mano – territori, incarichi, risorse, appalti.
Contenti e cojonati
La cura si rivela, dunque, peggiore del male. Il “potere” (le forze che tengono al guinzaglio la politica), ovviamente, lo sapeva fin dall’inizio. Le classi dirigenti (che faremmo meglio a chiamare “digerenti”) si mettono al servizio del nuovo ordine, svendendo visione, ruolo e autonomia. E i cittadini si ritrovano “contenti e cojonati”, come si dice a Roma: da una parte, sempre più soggetti a malgoverno e corruzione; dall’altra, privati dell’unico strumento (i partiti) con il quale avrebbero potuto cercare di far sentire la loro voce e far valere le loro istanze.
Personalizzazione = proto-presidenzialismo
Dal ‘94 in poi, al centro della scena politico-mediatica non ci sono più idee o sistemi di idee (socialismo, social-democrazia, comunismo, liberalismo, cattolicesimo democratico…): ci sono persone. È la cosiddetta “personalizzazione della politica”, una pratica proto-presidenzialista – più volte, inutilmente, stigmatizzata – della quale uno dei primi propugnatori/interpreti era stato proprio Bettino Craxi.
Nomi…
Né idee né sistemi di idee, dunque, ma nomi: Silvio, Matteo 1 & 2, Beppe, ‘Giuseppi’, Giorgia… Il fatto che Letta sia, forse, l’unico leader ad essere quasi sempre citato per cognome, la dice lunga sul suo ritrovarsi, di fatto, fuori dal mood psico-emotivo-categoriale-comunicativo di questo tempo (mood che, personalmente, non condivido ma che è e rimarrà quello che è, indipendentemente dai miei desiderata), relegato ai margini della “narrazione” intorno alla quale si gioca una partita decisiva.
… e soprannomi
Come in ogni saga popolare che si rispetti, ai nomi di battesimo si preferiscono nomi di battaglia – Cavaliere, Capitano, Rottamatore, Elevato, Avvocato del popolo, Calimera (o Draghetta) – creati ad hoc per eccitare, il più possibile, gli animi di un elettorato sempre meno capace di pensare e, quindi, sempre più attirato da paillettes, cotillon, specchietti e vetrini colorati. Non sbaglia, dunque, la Treccani, quando spiega che “l’analfabetismo di ritorno ha […] effetti determinanti sulla capacità di un soggetto di esprimere il proprio diritto alla cittadinanza (dal voto al diritto all’informazione, alla tutela sul lavoro ecc.) e di potersi inserire socialmente in modo autonomo”.
Meno siamo meglio è
Il fatto, poi, che l’astensione continui a crescere (un italiano su due non va più a votare) e che l’elettorato reale si riduca ogni giorno di più (fino al 1979, l’affluenza alle urne superava il 90%: ci sarà stato un motivo!) è vissuto da tutti come un vantaggio: il numero delle persone da convincere si fa sempre più piccolo e farlo diventa sempre più facile e sempre meno costoso, sotto tutti i punti di vista.
Chi la spara più grossa vince
Ed ecco, allora, che – in una realtà nella quale “anche per il politico, come per il prodotto commerciale, è divenuto essenziale il marketing, cioè la conoscenza delle tecniche per sfondare in un panorama di offerta ampio, concentrando su di sé l’attenzione del consumatore (in questo caso elettore) e facendo breccia sulle sue ‘motivazioni di acquisto’, che, come sanno tutti i pubblicitari, sono legate solo in parte alla qualità del prodotto e alla sua utilità reale per chi lo acquista” (Treccani) – Cavaliere, Capitano, Rottamatore, Elevato, Avvocato del popolo, Calimera (o Draghetta) si contendono follower, like, sondaggi e voti a colpi di slogan sempre più seducenti e, inevitabilmente, sempre più truffaldini: “Meno tasse per tutti”, “Pace fiscale”, “Rottamazione delle cartelle esattoriali”, “No alla patrimoniale”, “Flat tax al 23%”, “Flat tax al 15%”, ecc. ecc. ecc. In tempi di forti siccità e probabili razionamenti idrici, manca soltanto: “Se votate per noi, vi costruiremo case senza tetto, così potrete avere sempre l’acqua in casa!”.
Voto di scambio
Tutti proclami basati su una logica da “voto di scambio”: “se tu mi voti, io ti pago, abbassandoti le tasse e annullando i tuoi debiti con il fisco”. Importa a qualcuno che – oltre a prefigurare una pratica immorale al limite dell’illecito (la flat tax, detto per inciso, è anticostituzionale) – siano tutte dichiarazioni-allodola, che propagandano soluzioni irrealizzabili, dal momento che non si troveranno mai le coperture finanziarie necessarie a realizzarle? No. A qualcuno interessa davvero il “fact-checking”? No. Dunque: qual è il problema?
Vincere, non governare
La verità è che le aggregazioni-accalappia-voti (è questa la definizione più corretta per chi si presenta, oggi, alle elezioni) non hanno la minima intenzione di governare. Anche perché governare significherebbe, inevitabilmente, adottare scelte impopolari. E le scelte impopolari, si sa, fanno solo perdere voti. Chi è il pazzo che, dopo aver fatto carte false per accaparrarsi voti, decide di buttarli dalla finestra?
Le aggregazioni-accalappia-voti puntano solo ottenere il consenso necessario a mettere le mani sul forziere e godersi il tesoro, insieme agli amici. La “cosa pubblica” (“res publica”) diventa, così, “cosa privata”. E la Repubblica (“res publica”, appunto) perde significato, persino dal punto di vista lessicale.
Per pagare e morire c’è sempre tempo
A pagare – se proprio ci tiene – penserà chi verrà dopo. E, poi: cosa volete che siano un miliardo in più o in meno, per un Paese con un debito pubblico stellare, che non smette mai di crescere? A giugno, il nostro indebitamento ha superato i 2.700 miliardi (sfiorando il 160% del PIL). Solo dieci anni fa, era sotto i 2mila miliardi (1.989, pari al 123% del PIL), il che significa che, dal 2012 a oggi, è cresciuto di quasi il 40%. Beh? Qual è il problema? Non si dice, forse, che “per pagare a morire c’è sempre tempo”?
Il prossimo passo: l’ultimo
La storia della cosiddetta “Seconda Repubblica” (fake sin dal nome) è costellata da continue slavine di sineddoche sillogistiche, che hanno portato dall’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti (grazie alla quale la politica è tornata questione di ricchi, fra ricchi, per ricchi) alla riduzione del numero dei parlamentari (meno sono, più è facile controllarli e corromperli) ai continui tentativi di modificare la Costituzione e introdurre un sistema monocamerale (molto meno in grado di mettere i bastoni tra le ruote e rallentare o deviare l’azione del governo).
Il tutto, per poter togliere di mezzo “lacci e lacciuoli” della politica, e poter avere, finalmente, le “mani libere” (pieni poteri), per fare il bello e il cattivo tempo (bello per chi decide, cattivo per tutti gli altri, naturalmente), senza l’odiosa “fissazione democratica” di dover tener conto delle esigenze di tutti e dover sempre rendere conto a qualcuno (elettorato, magistratura, libera stampa, sindacati…).
L’ultimo passo lungo strada che, presto, porterà alla fine della democrazia parlamentare è il Presidenzialismo. Passo che non solo non scandalizza praticamente più nessuno ma affascina un numero sempre maggiore di italiani, i quali – malgrado decenni di calci in bocca, fandonie e figure barbine agli occhi del mondo – non riescono a liberarsi della retorica dell’uomo solo al comando.
Come ci si arriverà? Con lo stesso trucchetto con il quale, nel ’92, l’opinione pubblica venne convinta a buttare giù dalla torre i partiti politici. Trucchetto che, oggi come allora, funzionerà alla grande. E, così, tra applausi e grida di giubilo, la Repubblica democratica voluta dai Costituenti verrà buttata giù dalla torre, e il Presidenzialismo avrà, finalmente, campo libero.
Morale: nel caso di un vero Presidenzialismo (se siamo arrivati fino a qui, prima o poi arriveremo anche lì), i cittadini – senza veri partiti e senza un vero Parlamento – si ritroveranno sudditi di un sistema nel quale una sola persona (eletta dalla minoranza che andrà a votare) sarà, allo stesso tempo, capo dello Stato e capo del Governo. Un super-Presidente che non avrà bisogno di alcun voto di fiducia e che potrà sciogliere il Parlamento a proprio piacimento, ma non potrà essere rimosso dal Parlamento, se non in caso di reato, attraverso una procedura di impeachment.
La leader di FdI ha spiegato che il Presidenzialismo renderà “autorevole, forte, stabile e, dunque, molto più competitiva la Nazione”. Nazione, attenzione: non Paese né Repubblica. Questione di sostanza, non di forma. Per una persona con la sua storia, non è difficile immaginare cosa intenda dire e cosa abbia in mente.
La domanda è: riusciranno i pochi (la maggior parte dei quali compromessi col sistema che tutti vogliono cambiare) sostenitori della Repubblica Parlamentare a spiegare, ancora una volta (con parole chiare e forti come quelle della Destra), che non ha senso buttare “il bambino” (la Repubblica Parlamentare) insieme all’“acqua sporca” (l’ignominiosa, indifendibile, gestione della nostra Repubblica Parlamentare) e che l’unica cosa che il Presidenzialismo renderà più forte sarà il potere del potere e non le libertà, i diritti e le istanze dei cittadini?
La domanda è lunga ma la risposta, brevissima: no.
Così come la gestione scellerata della Prima Repubblica ha prodotto la Seconda Repubblica, infatti, la gestione – infinitamente più scellerata – della Seconda Repubblica produrrà, molto presto, il Presidenzialismo, sancendo, di fatto, l’avvento della Terza Repubblica: una Repubblica assai meno repubblicana, democratica, rappresentativa e aperta delle prime due.
Non si dice che le colpe dei padri ricadono sui figli? Di cosa ci stupiamo, allora?