La democrazia dei bignè

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In pasticceria, il colore della glassa dei bignè corrisponde al gusto del ripieno. Di solito (ma le eccezioni non mancano) il marrone scuro indica il cioccolato, il giallo la crema, il rosa lo zabaione, e così via. Sin da piccoli, impariamo a identificare i vari abbinamenti colore/sapore, per indicare i bignè che ci piacciono di più. Un’associazione di idee semplice e immediata. Anzi: immediata, proprio perché semplice.

I bignè, come le parole, sono insiemi di forma (l’involucro di pasta choux e la glassa) e sostanza (il ripieno). Pasta, glassa e ripieno danno vita ad abbinamenti inscindibili. Esattamente come, nelle parole, grafia, suono e significato. Ogni volta che leggiamo “casa”, pensiamo all’idea di casa e alla nostra casa; ogni volta che chiudiamo gli occhi e addentiamo un bignè marrone, pre-gustiamo il piacere che ci darà il sapore del ripieno al cioccolato.

Supponiamo che, un bel giorno, il pasticcere del paese voglia farci uno scherzo o un dispetto, e decida di cambiare, a nostra insaputa, gli abbinamenti colori-sapori. Con la glassa marrone decorerà i bignè alla crema, con quella rosa i bignè al cioccolato, con quella gialla i bignè allo zabaione. Addentando il nostro bignè preferito, andremmo incontro a una delusione: il sapore, infatti, non sarà quello che desideravamo e che ci aspettavamo.

Immaginiamo, ora, che il buontempone del pasticcere decida di non ripristinare gli abbinamenti giusti ma di mantenere quelli sbagliati. E immaginiamo che vada avanti così per anni. I bambini del nostro paese cresceranno nella convinzione che il cioccolato sappia di crema, lo zabaione di cioccolato e la crema di zabaione. E, a poco a poco, anche noi adulti finiremo col dimenticare quali fossero i sapori originali e cominceremo a chiamare cioccolato la crema, zabaione il cioccolato e crema lo zabaione. Nel giro di qualche anno, l’anormalità diventa normalità. E l’errore si trasforma in verità.

È mai successo? In pasticceria, non credo. Quanto meno, a me non risulta. In politica? Sì, ogni volta che nasce una democrazia.

Se il Potere – che, per sua natura, non può certo essere democratico – non è riuscito a far abortire la madre di quella creatura immonda, cercherà di soffocare la neonata sin dalla culla. “Mors tua, vita mea!”, urlerà, mentre le stringerà le mani intorno al collo, pensando, con orrore, al giorno nel quale la “maggioranza” lo costringerà a rinunciare a una parte del suo patrimonio. Tutto, per quei morti di fame dei democratici. Plebaglia che sa solo piangere, e che ha l’ardire di pretendere ciò che non è suo, come se sopravvivere fosse un diritto e non una conquista! Diritto? Non scherziamo, per favore. Se la natura vi ha voluti gazzelle, l’unico diritto che avete è quello provare a correre più veloce dei leoni. Finché il cuore vi regge, naturalmente. È il destino che sceglie, non noi. E il vostro è segnato.

Se la neonata, però, è tanto forte e tanto fortunata da sopravvivere, crescere e rafforzarsi, il Potere – che, per definizione, non può certo perdere sé stesso – è costretto a escogitare qualcos’altro. Non perché la democrazia sia in grado di sconfiggerlo, questo no. Non c’è mai riuscita. Né mai ci riuscirà. Ma perché gli fa perdere un sacco di tempo. E, soprattutto, un sacco di soldi. Montagne di soldi. La democrazia costa. Sanità, istruzione, welfare, tutele sindacali, trasporti, pensioni, servizi… Ogni giorno che passa, il Potere perde miliardi. Bisogna fare di tutto per fermare l’emorragia. Il più presto possibile. E, allora, via col picconamento quotidiano: scandali, campagne di diffamazione, dosssieraggi, minacce, corruzione, attentati, stragi…

E, naturalmente, bisogna eliminare fisicamente tutti i “cattivi esempi”: politici, magistrati, intellettuali, professori universitari, giornalisti, sindacalisti, “servitori dello Stato”. Chiunque appaia un testimonial credibile e affidabile della democrazia, capace di conquistare il rispetto e il cuore delle masse, deve essere messo in condizione di non nuocere. Costi quel che costi.

La storia del nostro Paese lo dimostra: una via crucis interminabile di migliaia di nomi, il cui doloroso ricordo ci dice, con devastante evidenza, che non è poi così difficile distinguere i buoni dai cattivi: i buoni sono quelli che muoiono. Danno al quale si aggiunge, puntualmente, la beffa. La quasi totalità di loro, infatti – a distanza di anni e, spesso, decenni, dalla morte – attende ancora giustizia. Giustizia che non avrà mai. Malgrado tutti non facciano altro che garantire verità e giustizia. Se, ogni volta che – negli ultimi settantacinque anni – ho sentito dire “scopriremo la verità e faremo giustizia”, fosse spuntato un fiore, vivremmo nel giardino più colorato e profumato del mondo. Ogni volta, invece, un fiore è stato spezzato.

Nei nostri tribunali, alle spalle dei giudici, si legge una frase che dev’essere stata presa da qualche libro dei sogni. “La legge è uguale per tutti”, recita. Nella migliore delle ipotesi, un ottativo. Nella peggiore, una menzogna. Trovo molto più realistica e intellettualmente onesta, la frase che campeggia nelle aule dei tribunali americani: “In God we trust”. Come dire: dato che sappiamo fin troppo bene di che pasta siano fatti gli uomini, ci affidiamo a Dio, nella speranza che riesca a fare lui ciò che noi siamo totalmente incapaci di fare: giustizia. “Spes ultima dea”, chioserebbero i nostri avi.

Se nemmeno il picconamento quotidiano funziona e la democrazia – per quanto malridotta – continua a rimanere in piedi, allora si ricorre all’aiuto dei pasticceri, chiedendo loro di modificare il contenuto dei ripieni e cambiare gusto ai bignè. Inquinare, cioè, il linguaggio, per inquinare categorie e pensieri. Mossa letale, soprattutto perché invisibile e silenziosa. Come scriveva Simone Weil (“La persona e il sacro”), “Laddove c’è un grave errore di vocabolario, è difficile che non vi sia un grave errore di pensiero”. Impossibile, in realtà. Se sbagliamo a pensare, sbagliamo a capire. E, se sbagliamo a capire, sbagliamo a scegliere il “cosa” e a decidere il “chi”. E, della democrazia, non resta che la “pasta choux”. Il “ripieno”, infatti, cambia sapore. Completamente.

La glassa dei nuovi bignè dice una cosa, il ripieno, tutt’altra. “Seconda Repubblica” (“la prima è morta, vivaddio!”), “Riforma costituzionale” (“la democrazia parlamentare ha rotto: leviamocela dai piedi!”), “Riforma elettorale” (“chi vince piglia tutto: gli altri muti e rassegnati!”), “Governabilità” (“tutti in fila per tre, avanti marc’ e non disturbate il con-duce-nte!”), “Fine del finanziamento pubblico dei partiti” (“la politica è una cosa da ricchi per i ricchi”), “Riduzione del numero dei parlamentari” (“meno contano i rappresentanti, meno contano i rappresentati”), “Uomo forte” (“La ricreazione è finita: finalmente!”).

E così, un giorno dopo l’altro, la farcitura del bignè democrazia – decorato da una meravigliosa e immacolata glassa bianca – cambia. Il colore è sempre marrone. Il sapore, però, non è certo quello del cioccolato. Inutile scendere nei dettagli. Peccato, però, che, quando ce ne accorgiamo, sia ormai troppo tardi.