Grazie, Signor G.

Signor

Quando ascoltiamo un musicista incapace suonare male della bella musica, pensiamo: “è un incapace: rovina la musica!”. A nessuno di noi viene in mente di dire: “la musica fa schifo!”. Questo, perché sappiamo tutti benissimo che la musica è bella. Se ci sembra brutta, è colpa soltanto dell’incapace che la suona.

Due domande:

  1. come mai non confondiamo mai (buona) musica e (cattivi) musicisti ma confondiamo sempre (cattivi) politici e politica?
  2. Perché basta un solo politico incapace a farci gridare “la politica fa schifo!”?

Ora è vero che il nostro Parlamento brulica di cattivi politici (corrotti, cialtroni, incapaci, inetti…) ma questo non cambia la natura della politica.

Nello stesso modo nel quale un’orchestra di musicisti incapaci non cambia la natura della musica.

Esattamente come la musica, infatti, la (vera) politica è bella indipendentemente da coloro i quali la interpretano.

Se ci sembra brutta – e, almeno da trent’anni in qua, è davvero molto brutta (ma troppe cose lasciavano a desiderare anche prima) – non dobbiamo cambiare la politica (musica): dobbiamo cambiare i politici (musicisti).

Senza questo cambio, nessuna riforma avrà mai effetto.

Non ha alcun senso, infatti, cambiare partitura se i musicisti chiamati a eseguirla rimangono gli stessi incapaci di sempre.

A che servono, dunque, le tanto sbandierate riforme?

A nulla se non a distrarci. Con la complicità del circo social-mediatico, infatti, esse accendono – e mantengono accesi – i riflettori su un falso problema, in modo da continuare a tenere nell’ombra il problema vero.

E, così, da decenni, non facciamo altro che parlare di cambiare le regole del gioco, mentre nessuno parla mai di cambiare i giocatori.

Del resto, il potere – che tiene in ostaggio la politica – non ha alcun interesse a disporre di giocatori migliori. Per nessuna ragione al mondo, infatti, sarebbe disposto a rinunciare a colonie di “utili idioti”, con il rischio di ritrovarsi tra i piedi “modelli pensanti”, dotati di intelligenza e coscienza, che pretendono di mettere in discussione i suoi desiderata.

Altre due domande.

  1. Se i giocatori continuano a essere le “pippe” di sempre, per quanto le regole del gioco possano migliorare, il gioco potrà mai migliorare?
  2. Non solo: dato che sono proprio le “pippe” di sempre quelle deputate a cambiare le regole del gioco, potranno mai scrivere delle regole che rischino di penalizzarli?

Libertà è partecipazione”, cantava il Signor G. Sintesi perfetta dell’ideale stesso di democrazia rappresentativa.

Se democrazia è libertà (ed è certamente così), e libertà è partecipazione, allora democrazia è partecipazione.

Ed è proprio per questo che è così fragile. Perché partecipare significa essere né uno (monarchia) né pochi (oligarchia) ma tanti (demos) a scegliere e decidere per (il bene di) tutti.

Basterebbe questo a capire che mille parlamentari (lo 0,001% della popolazione) sono il minimo sindacale perché una democrazia possa essere definita rappresentativa. (La democrazia parlamentare è già, di fatto, un’oligarchia).

Chi insiste per tagliare “rappresentanti” e luoghi della rappresentanza (Camera, Senato, partiti, sindacati), dunque, non lo fa certo per favorire i “rappresentati”. Lo fa per penalizzarli.

Più chiaro di così. Non lo capiamo? Delle due l’una: o siamo stupidi o siamo complici.

“Ma lo fanno anche in altre parti del mondo!” ‘Sticazzi, come si dice a Roma. Il fatto che altri popoli accettino di essere sotto-rappresentati non significa che dobbiamo accettarlo anche noi! Abbiamo un vantaggio? Sfruttiamolo! Che senso ha rinunciarci?

Essere in tanti a decidere è difficile, è vero. Un processo difficile, faticoso e decisamente più lento di quello che prevede “un uomo solo al comando”.

Per capirlo, non bisogna essere scienziati della politica. Basta aver vissuto in una famiglia. Sia da figli che da genitori. In famiglia, infatti, qualunque scelta – dalla più piccola alla più grande – è il prodotto di una “tensione di forze” che, nella stragrande maggioranza dei casi, comporta discussioni estenuanti. Tanto più animate, quanto più importanti sono le scelte da compiere: da “cosa prepariamo per cena?” a “a che scuola iscriviamo i ragazzi?”; da “che macchina compriamo?” a “dove andiamo in vacanza?”; da “cosa guardiamo in tv?” a “posso andare al concerto di X con Y?” o “posso dormire da Z?”.

Ancora due domande:

  1. Se “governare” una coppia o una famiglia di tre o quattro persone è così difficile, perché dovrebbe essere più facile governare una famiglia – il nostro Paese – di sessanta milioni di persone?
  2. Pensiamo che decidere come gestire un PNNR, ridurre le disuguaglianze sociali, combattere la povertà, affrontare crisi dell’occupazione e nodo-pensioni, gestire sanità e scuola pubblica, ridurre il gender-gap, azzerare femminicidi e morti sul lavoro o combattere la criminalità organizzata sia più facile che decidere quale auto comprare o dove andare in vacanza?

Non solo: basta essere o essere stati figli o genitori (o entrambe le cose) per aver subito una o più decisioni penalizzanti; aver visto le nostre “istanze” disattese e le nostre “speranze” deluse.

Chiunque sia o sia stato figlio o genitore (o entrambe le cose), dunque, sa, perfettamente, che per quanto partecipare sia difficile, faticoso e lento, è infinitamente meglio che non partecipare. È lapalissiano che, solo partecipando, si abbia almeno una possibilità di vedere accolte le proprie istanze. Non partecipando, invece…

Ultime due domande (per oggi):

  1. Meglio partecipare alle decisioni o subirle?
  2. Per non subirle, bisogna per forza buttar fuori di casa gli altri famigliari? C’è un altro modo?

Torniamo al Signor G: se “libertà è partecipazione”, è evidente che, senza partecipazione, non può esserci libertà.