R.I.P. mentre siamo sempre più “brutti, sporchi e cattivi”

Solo una cosa, riguardo a Silvio Berlusconi, è certa: il fatto che sia morto. E – dato che gli evangelici tre giorni sono, ormai, tramontati – persino gli adoranti e zeloti passionari che, in vita, lo veneravano – e, post mortem, lo invocavano “santo subito” – si vedono costretti a fare i conti con il fatto che, contrariamente a quanto speravano, non risorgerà.
Bene? Male? Indifferente? Non sta a me giudicare. Ognuno faccia i conti con la propria coscienza. (Coscienza, per favore, non convenienza). Ammesso che qualcuno l’abbia ancora. E, soprattutto, che decida di ascoltarla. Per una volta, almeno. Così, tanto per cambiare. E, magari, provare la vertigine di quell’ebbrezza che solo certe sconvolgenti novità sono in grado di procurare.
Dubbio e di dubbio gusto
Silvio, dunque, non c’è. Non più. E questa – ripeto – è l’unica certezza. Tutto il resto, invece, è incerto. E incerto rimarrà. Dubbio, anzi. Nel senso, però, che Treccani attribuisce all’aggettivo: “poco chiaro”, “discusso”, “controverso”, “persona che offra motivo di dubitare della sua onestà, della sua fedeltà, della sua serietà morale”.
Dubbio e – diciamolo chiaramente – di “dubbio gusto”, per una condotta di vita e i molti “miracoli” (non sempre immacolati), che avrebbero nauseato qualunque “onesto” cittadino di “sani principi”, soprattutto in un Paese che dovrebbe essere cresciuto all’ombra illuminante degli insegnamenti morali di Santa Romana Chiesa. Una Chiesa che, però, continua a mostrarsi inflessibile con le “pagliuzze” e indulgente fino alla condiscendenza con le “travi”, e che predica benissimo ma razzola come peggio non si potrebbe, soprattutto in tema di politica italiana.
100% cattolici 0% cristiani
Dove sono state, negli ultimi trent’anni, le legioni di quei sedicenti cattolici (100% cattolici e 0% cristiani), sempre pronti a stracciarsi le vesti, farsi il segno della croce e baciare il rosario, ogniqualvolta sembra che qualcuno sia sul punto di arrecare offesa al Catechismo (in molti passaggi, più che discutibile) di Santa Romana Chiesa?
Davanti a San Silvio, patrono della libertà (la sua, ovviamente), i “non rubare”, i “non commettere atti impuri”, i “non dire falsa testimonianza”, i “non desiderare la donna e la roba d’altri” si sono dissolti alla velocità del fumo di una sigaretta travolto dal più impetuoso dei maestrali.
Tutto questo, anche grazie a talune scelte indifendibili di una Chiesa (parlo dell’istituzione non delle fedi autentiche) che – pur di non rischiare di compromettere potere e rendite terrene – è capace di perseguitare angeli come Primo Mazzolari, Lorenzo Milani e Arturo Paoli (solo per fare i primi tre nomi che mi vengono in mente) e scendere a patti con diavoli (Mussolini, Hitler, Franco, Pinochet, Videla…) e diavoletti di ogni risma (Andreotti, Craxi, Berlusconi…), del tutto incurante del fatto di mostrarsi al mondo intero assai più “meretrice” che “santa”.
Una Chiesa che, da secoli ormai, ha rinunciato alla propria natura/missione rivoluzionaria (l’annuncio della morte della Morte e della salvezza dell’umanità, per mezzo del sacrificio di Cristo) e che, da secoli, tra Dio e Mammona ha, evidentemente, scelto il secondo, fingendo – con raffinatissima ma indigeribile (almeno per me) ipocrisia – che non sia così. “Sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume” (Matteo 23, 27-32).
“Noi non siamo con Te ma con lui, ecco il nostro segreto!”
Comincia così, l’invettiva del Grande Inquisitore contro Cristo, tornato – inopportunamente – sulla Terra al tempo dell’Inquisizione, e fatto rinchiudere nelle segrete del vecchio edificio del Santo Uffizio, in attesa di essere condotto al rogo. Parlo, ovviamente, di uno dei capitoli più drammatici e rivelatori dei Karamazov di Dostoevskij.
“Da lungo tempo non siamo più con Te, ma con lui, sono ormai otto secoli. Sono esattamente otto secoli che accettammo da lui ciò che Tu avevi rifiutato con sdegno, quell’ultimo dono ch’egli Ti offriva, mostrandoti tutti i regni della terra: noi accettammo da lui Roma e la spada di Cesare e ci proclamammo re della terra, gli unici re, sebbene non abbiamo ancora avuto il tempo di compiere interamente l’opera nostra”.
Meretrice, dunque. Da noi, in particolare, reazionaria e meschinamente borghese, nel senso perfettamente rappresentato dai versi lapidari di una vecchia canzone di Claudio Lolli:
“Vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia
Non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia
Sei contenta se un ladro muore o se si arresta una puttana
Se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana.
Sei soddisfatta dei danni altrui, ti tieni stretta i denari tuoi
Assillata dal gran tormento che un giorno se li riprenda il vento.
E la domenica vestita a festa con i capi famiglia in testa
Ti raduni nelle tue Chiese in ogni città, in ogni paese
Presti ascolto all’omelia, rinunciando all’osteria
Così grigia e così per bene, ti porti a spasso le tue catene.
Godi quando gli anormali son trattati da criminali
E chiuderesti in un manicomio tutti gli zingari e gli intellettuali
Ami ordine e disciplina, adori la tua Polizia
Tranne quando deve indagare su di un bilancio fallimentare
Sai rubare con discrezione, meschinità e moderazione
Alterando bilanci e conti, fatture e bolle di commissione
Sai mentire con cortesia, con cinismo e vigliaccheria
Hai fatto dell’ipocrisia la tua formula di poesia.
Sempre pronta a spettegolare in nome del civile rispetto
Sempre fissa lì a scrutare un orizzonte che si ferma al tetto
Sempre pronta a pestar le mani a chi arranca dentro a una fossa
E sempre pronta a leccar le ossa al più ricco ed ai suoi cani”.
“Il male che gli uomini fanno sopravvive loro”
Ma torniamo a Berlusconi. Dubbio e di “dubbio gusto”, dunque. Non ai miei occhi, che contano nulla. Ma agli occhi di chiunque (inclusi coloro che contano) in qualunque angolo dell’orbe terracqueo, abbia ancora occhi per vedere e non si spauri né si vergogni a usarli.
“Il male che gli uomini fanno sopravvive loro”, ammonisce Marco Antonio nella straordinaria orazione funebre che Shakespeare gli fa pronunciare, in occasione del funerale di Cesare. Vero. Verissimo, anzi. E dolorosissimo. Per chi resta, naturalmente. Chi muore, i conti li fa altrove. Ammesso e non concesso che quell’altrove esista davvero. Chi resta, invece, è costretto a subire quel male e portarne il peso. “Le colpe dei padri ricadono sui figli”, si dice, sintetizzando un passo dell’Esodo (20, 5-6) che recita: “Perché io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”.
Sarebbe fin troppo facile ironizzare, adattando l’adagio popolare in “Le colpe di Papi ricadono sui figli”. Ma non c’è assolutamente niente da ridere e non intendo imboccare la strada dell’ironia. Anche perché, infinitamente più delle nefandezze del passato, peserà su tutti gli italiani – che lo capiscano o no – l’eredità politica, civile e sociale ma, soprattutto, morale che Silvio Berlusconi ci ha lasciato. Un peso che pagheremo, davvero, per tre o quattro generazioni. E, forse, anche di più.
Il sommo sacerdote della religione neopagana dell’Io
Come ha scritto – con grande lucidità, profondità e verità – Vito Mancuso (“La Stampa”, 13 giugno 2023), Berlusconi “seppe cogliere il desiderio profondo del nostro tempo, ne riconobbe l’anima leggera e se ne mise alla caccia esercitando tutte le arti della sua sorridente e persistente seduzione. Si trasformò in questo modo in una specie di sommo sacerdote della nuova religione che ormai da tempo aveva preso il posto dell’antica, essendo la religione del nostro tempo non più liturgia di Dio ma culto ossessivo e ossessionante dell’Io. Il berlusconismo rappresenta nel modo più splendido e seducente lo spodestamento dell’antica religione di Dio e la sua sostituzione con la religione dell’Io”.
Mancuso definisce il berlusconismo un’infezione e spiega come esso abbia infettato la “coscienza morale” del nostro Paese. “Il berlusconismo – scrive – rappresenta la fine plateale del primato dell’etica e il trionfo del primato del successo. Successo attestato mediante la certificazione dell’applauso e del conseguente inarrestabile guadagno. […] Dio, prima, lo si poteva intendere in vari modi: nel senso classico del cattolicesimo e delle altre religioni, nel senso socialista e comunista della società futura senza classi e finalmente giusta, nel senso liberale e repubblicano di uno stato etico […], nel senso della retta e incorruttibile coscienza individuale della filosofia morale di Kant, e in altri modi ancora, tutti comunque accomunati dalla convinzione che esistesse qualcosa più importante dell’Io, di fronte a cui l’Io si dovesse fermare e mettere al servizio. Fin dai primordi dell’umanità il concetto di Dio rappresentò esattamente l’emozione vitale secondo cui esiste qualcosa di più importante del mio Io, del mio potere, del mio piacere (a prescindere se questo “qualcosa” sia il Dio unico, o gli Dei, o l’Urbe, la Polis, lo Stato, la Scienza, l’Arte o altro ancora). Ecco, il trionfo del berlusconismo rappresenta la sconfitta di questa tensione spirituale e morale. In quanto religione dell’Io, esso proclama esattamente il contrario: non c’è nulla più importante di me”.
Una religione dell’Io che “suppone quale condizione imprescindibile ciò che consente all’Io di affermare il suo primato di fronte al mondo, vale a dire il denaro. Il denaro era per il berlusconismo ciò che la Bibbia è per il cristianesimo, il Corano per l’islam, la Torah per l’ebraismo: il vero e proprio libro sacro, l’unico Verbo su cui giurare e in cui credere. Il berlusconismo è stato una religione neopagana secondo cui tutto si compra, perché tutto è in vendita: aziende, ville, politici, magistrati, uomini, donne, calciatori, cardinali, corpi, parole, anime. Tutti hanno un prezzo, e bastano fiuto e denaro per pagare e ottenere i migliori per sé”.
Per Mancuso, “il berlusconismo ha rappresentato un tale abbassamento del livello di indignazione etica della nostra nazione da coincidere con la morte stessa dell’etica nelle coscienze degli italiani. La quale infatti ai nostri giorni è in coma, soprattutto nei palazzi del potere politico”.
Ma cosa significa morte dell’etica? “Significa lo spadroneggiare della volgarità, termine da intendersi non tanto come uso di linguaggio sconveniente, quanto nel senso etimologico che rimanda a volgo, plebe, plebaglia, ovvero al populismo in quanto procedimento che misura tutto in base agli applausi, in quanto applausometro permanente che trasforma i cittadini da esseri pensanti in spettatori che battono le mani. Ovvero: non è giusto ciò che è giusto, ma quanto riceve più applausi. Ecco la morte dell’etica, ecco il trionfo di ciò che politicamente si chiama populismo e che rappresenta la degenerazione della democrazia in oclocrazia (in greco antico “demos” significa popolo, “oclos” significa plebaglia)”.
Tutto questo – conclude Mancuso – “ha avuto e continuerà ad avere delle conseguenze devastanti”.
Male incommensurabile e incurabile
È questa morte dell’etica, questa idolatria dell’Io per la quale tutto ha un prezzo ma niente ha un valore, il male incommensurabile che Silvio Berlusconi ha lasciato in dote a tutti gli italiani: berlusconiani e no, consapevoli o inconsapevoli, felici, dolenti o indifferenti; sia che piaccia loro o no ammetterlo, e che trovino o no l’onestà e il coraggio di guardarsi dentro e tornare a chiamare le cose con il loro nome. Perché, al di là delle mille narrazioni di comodo che, ogni giorno e da ogni parte, ci vengono propinate, tutte le cose hanno un nome e con tale nome, prima o poi, dovremo tornare a chiamarle.
Un male incommensurabile. E, per come la vedo io, incurabile. Passerà almeno una trentina d’anni, prima che qualcuno riesca a mettere a punto una cura efficace. E un’altra ventina d’anni almeno, prima che detta cura cominci a dare i suoi frutti. Per almeno mezzo secolo, dunque, vivremo nel Paese deformato da Berlusconi.
Colpa nostra, non sua
Paese – attenzione – che ci meritiamo, dal momento che siamo stati noi a volere che il “Sommo Sacerdote” lo prendesse in mano e ne facesse ciò che più gli piaceva. E lui ci ha presi in parola, trasformando Italia e italiani a sua immagine e somiglianza. Il risultato non ci piace? E ce ne accorgiamo solo adesso? Eravamo all’estero in questi trent’anni? Ma, soprattutto: di chi è la colpa? Dell’uomo al quale abbiamo affidato tutto questo potere, o del fatto che ci siamo lasciati incantare dal potere seduttivo della sua “religione”, fino a diventarne seguaci integralisti? A me non risulta che ci fosse un partito unico né che qualcuno di noi sia stato trascinato al seggio e costretto con la forza a fare la propria “professione di fede”. E a voi?
Il folle loop della ricerca dell’“uomo forte”
Curioso Paese il nostro: prima, invochiamo un “uomo forte” che “non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni”
(nel 2019, secondo il Censis, lo chiedeva il 48% degli italiani, travolti dal “furore di vivere”; una percentuale che saliva al 56% tra i redditi bassi, al 62% tra i meno istruiti, al 67% tra gli operai)
perché “metta a posto” gli altri, “gliela faccia vedere lui”, e faccia finire “la pacchia”
(di quale pacchia si parli, in un Paese nel quale 14,4 milioni di persone – il 24,37% della popolazione – vivono tra povertà relativa e povertà assoluta, non si capisce…)
e poi – non appena ci accorgiamo che “gli altri” siamo noi, e che l’unico che se la gode alla grande è proprio l’uomo forte – ci lamentiamo che è un despota, assetato di soldi, potere, donne, coca, bollicine, lusso sfrenato e ogni altro genere di privilegio (lecito e no), e cominciamo a fare di tutto per tirarlo giù da quel piedistallo dorato sul quale l’avevamo posto, con tutti gli onori.
(Qualcuno ha, forse, dimenticato la lapidazione tramite monetine, inflitta da una folla inferocita a Bettino Craxi – uno tra i più amati e temuti sommi sacerdoti della Prima Repubblica – la sera del 30 aprile 1993?)
Ma la cosa più folle di tutte è che non impariamo mai la lezione. Per quante nefandezze, infatti, quest’“uomo forte” compia, non smettiamo mai di invocarlo. Al contrario: appena ne detronizziamo uno, cominciamo subito a cercarne un altro, ancora più forte! Andreotti non ci basta: vogliamo di più; Craxi non ci basta: vogliamo di più; Berlusconi non ci basta: vogliamo di più. E visto che Renzi, Salvini e Conte non si sono dimostrati forti abbastanza, abbiamo deciso di incoronare Meloni: la prima “uomo forte”-donna della Storia italiana. Vedremo se ci basterà o se qualcuno ci costringerà a farcela bastare.
Craxi, Andreotti, Forlani…
Il male che Berlusconi ci ha lasciato è infinitamente più grande di quello che gli italiani avevano ricevuto in sorte da Bettino Craxi, morto contumace (non esule né perseguitato), per sottrarsi al confronto con la Giustizia.
Ecco il suo cursus honorum giudiziario: “Condannato in via definitiva a 5 anni e 6 mesi per le mazzette Eni-Sai (corruzione) e a 4 anni e 6 mesi per le tangenti della Metropolitana milanese (finanziamento illecito). Condannato in secondo grado a 3 anni per Enimont (finanziamento illecito), a 5 anni e 6 mesi per le mazzette Enel (corruzione) e a 5 anni e 9 mesi per il conto Protezione (bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano). Salvato dalla prescrizione in appello dopo una condanna a 4 anni in Tribunale per le mazzette di Berlusconi tramite All Iberian. Imputato in primo grado per le bustarelle dell’autostrada Milano-Serravalle (corruzione) e per quelle della cooperazione col Terzo mondo, nonché per frode fiscale sui proventi delle sue varie tangenti. Muore latitante ad Hammamet (Tunisia) il 19 gennaio 2000, prima che i suoi numerosi processi ancora in corso giungano a conclusione”. [“Mani pulite. La vera storia”, Barbacetto, Gomez, Travaglio, Chiarelettere, 2014]).
Un male persino più grande di quello lasciatoci in eredità da quel Giulio Andreotti, che Aldo Moro, poco prima di essere trucidato, descriveva così: “indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria […] un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana… Lei, on. Andreotti, per nostra disgrazia e disgrazia del Paese (che non tarderà ad accorgersene) a capo del governo, non è mia intenzione rievocare la grigia carriera. Non è questa una colpa. Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, on. Andreotti, è proprio questo che Le manca. […]. Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po’ di più, un po’ meno, ma passerà senza lasciare traccia… passerà alla triste cronaca, soprattutto ora, che Le si addice”.
A proposito di questo “regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana”, vale la pena ricordare ciò che scrive Gian Carlo Caselli nel suo “La verità sul processo Andreotti” (Laterza, 2018). Andreotti non fu affatto “assolto!” (come gridò, in favore di telecamere, per ben tre volte, il suo difensore Giulia Buongiorno) dal reato di “mafia”. Il dispositivo della sentenza, infatti – come scrive Castelli – “testualmente dichiarava commesso (commesso!) fino alla primavera del 1980, il reato ascritto all’imputato. Reato commesso (commesso!) ma estinto per prescrizione”.
Andreotti, però, la sapeva infinitamente più lunga di Craxi. Non scappò, non si rifugiò da nessuna parte, non si nascose. Non ne aveva bisogno. Rimase a Roma – la sua Roma – consapevole del fatto che in nessun altro posto al mondo sarebbe stato più al sicuro. Aveva ragione. La sua lucidissima, cinica e spietata realpolitik gli trasmetteva una certezza incrollabile: nessun tribunale della Repubblica avrebbe mai certificato, nero su bianco, che il nostro Paese era stato governato – per ben sette volte (per un totale di 7 anni, 3 mesi e 7 giorni, senza contare i 34 mandati da ministro) – da qualcuno che sarebbe stato riconosciuto colpevole del reato di “associazione a delinquere di stampo mafioso”. Se mai, infatti, qualche, onesto ma incauto, giudice avesse osato pronunciare una simile sentenza, il danno – interno e internazionale – per il nostro Paese sarebbe stato devastante. E, come in una nuova versione del mito di Sansone, il “Tempio”-Italia sarebbe crollato assieme al suo “Sommo Sacerdote” più potente, oscuro e controverso.
Negli ultimi cento anni, solo un uomo ha lasciato al nostro Paese un’eredità più nefasta di quella che abbiamo appena ricevuto da Silvio Berlusconi: Benito Mussolini. Non perderò più tempo, però, a spiegare i perché. Esistono decine di testi di altrettanti autorevoli storici che li spiegano, al di là di ogni ragionevole (o irragionevole) dubbio. Chi desidera contestare questa verità, dunque, è libero di farlo solo a patto di aver, prima, letto e compreso il senso dei più rilevanti e significativi tra quei testi. Altrimenti, è pregato di tacere.
L’uccisione della politica
Qual è questo male così grande, frutto avvelenato di quella “religione neopagana dell’Io”, responsabile della “morte dell’etica” di cui parla Mancuso? L’uccisione della politica. Al contrario di ciò che tutti – in buona o cattiva fede – hanno sostenuto e continuano a sostenere, Berlusconi non è stato affatto l’uomo che ha rivoluzionato la politica italiana. Egli è stato, piuttosto, il killer che l’ha uccisa; l’uomo che l’ha tolta di mezzo.
Stanco di lungaggini, tortuosità, indecisioni, ripensamenti, della continua ricerca di equilibri (quasi) impossibili e, soprattutto, degli esorbitanti “costi di mediazione” (che lui stesso aveva scelto di sostenere), decide di “scendere in campo”, per sbarazzarsi della politica e sostituirsi ad essa. La logica è elementare. E, come quasi tutte le logiche elementari, si rivelerà vincente: “Tolgo di mezzo la politica, divento la politica e, così, avrò a che fare solo con me stesso!”. Detto, fatto. Riuscite a immaginare una condizione più favorevole a lui e sfavorevole alla vita di una democrazia?
L’operazione – bisogna riconoscerlo – gli riesce alla grandissima. Anche grazie all’involontaria “complicità” del ciclone “Tangentopoli”, che – in soli due anni – spazza via non una classe dirigente ma l’intero sistema di potere che aveva fatto il bello e il cattivo tempo nei primi 45 anni di storia repubblicana.
Deus ex machina, eterogenesi dei fini o entrambi?
Che la dinamica complessiva dei fatti non sia del tutto cristallina e che non si possa escludere il “supporto interessato” di qualche “Deus ex machina”, lo suggerisce il fatto che – dopo decenni di impenetrabile omertà – all’improvviso, un oscuro (e piuttosto pittoresco) PM di Montenero di Bisaccia si trasforma in una divinità onnisciente e onnipotente.
Antonio Di Pietro, infatti, riesce là dove generazioni di magistrati, prima di lui, avevano fallito, incluso far balbettare – davanti alle telecamere – un politico intelligente, scaltro e di lungo corso come Arnaldo Forlani: Segretario della Democrazia Cristiana, più volte ministro, ex-Presidente del Consiglio e perno del potente triunvirato (il CAF, dalle iniziali dei suoi componenti: Craxi, Andreotti e, per l’appunto, Forlani) che, da oltre un decennio, teneva saldamente tra le mani timone e “cordoni della borsa” del Belpaese. È evidente che “qualcuno” aveva dato “semaforo verde” al cambio di sistema.
L’effetto drammatico del terrore scatenato da “Mani Pulite”
(Tra il ‘92 e il ’94, si contano: 3.200 rinvii a giudizio, 1.300 dichiarazioni di colpevolezza – tra condanne e patteggiamenti definitivi – una percentuale di assoluzioni nel merito – imputati risultati estranei ai fatti – che oscilla tra il 5 e il 6 per cento, mentre il restante 40 per cento degli indagati, si sono salvati grazie alla prescrizione, a cavilli procedurali o a modifiche legislative su misura. [“Mani pulite. La vera storia”, Barbacetto, Gomez, Travaglio, Chiarelettere, 2014]).
è quello di mostrare a tutti che il Re è nudo. Vergognosamente e irrimediabilmente nudo. Tutti i tentativi di correre ai ripari con ogni genere di “foglia di fico” falliranno. Indietro non si torna. È la fine della cosiddetta “Prima Repubblica”.
Il colpo di grazia ai partiti
E, così, quando Berlusconi entra in scena, i partiti giacciono a terra, agonizzanti. L’idea di salvarli, però, non lo sfiora minimamente. È sceso in campo per liberarsene, non per liberarli. Perché dovrebbe tornare a pagare per qualcosa che può, finalmente, avere gratis? E, così, dà loro il colpo di grazia e li fa fuori. Letteralmente. Fuori dalla scena, ovviamente. Niente più partiti: niente più politica. Il che significa, nel caso qualcuno non lo avesse ancora capito: niente più democrazia, dal momento che – senza partiti (quelle libere associazioni nelle quali i cittadini “hanno diritto di associarsi […] per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale”, come recita l’Art. 49 della nostra Costituzione) non può esserci alcuna vera democrazia.
Sul campo, dunque, resta solo il potere. E un solo potere: il suo.
Al contrario di Craxi, Andreotti, Forlani e di tutti i potenti della Prima Repubblica – che si erano sempre mossi all’interno del perimetro e delle logiche del “RisiKo!” della politica – Berlusconi butta all’aria il “RisiKo!” e impone un nuovo gioco: il suo. “Monopoly”, ovviamente.
Nulla sarà più come prima.
Per Berlusconi (ma anche per mandanti, “Deus ex machina” e fiancheggiatori), la Magistratura ha esaurito la propria missione. Peggio: da “soluzione”, è diventata “problema”. Deve togliersi dalle palle. E, così, il leader di Forza Italia dichiara guerra a quella stessa Magistratura che – rivelando e perseguendo tutto il marcio della Prima Repubblica – aveva concorso a creare i presupposti per il suo trionfo elettorale del ‘94.
Partito da zero, infatti, alla sua prima prova elettorale, Forza Italia fa il botto: primo partito, con il 21% dei consensi. Berlusconi diventa, così, Presidente del Consiglio, alla guida di una coalizione (Il Popolo della Libertà e del Buon Governo: 42,84% dei voti) che – per la prima volta dalla fine della Guerra – riporta i fascisti al governo del Paese. Il governo Berlusconi I durerà soltanto 8 mesi e 6 giorni, è vero, ma il cambio di rotta nella “coscienza” degli italiani si rivelerà decisivo. E, ahimè, irreversibile.
La “settimana santa” della Magistratura
In pochi mesi – ed è questo il suo più “grande capolavoro” – Berlusconi (forte del suo strapotere economico e mediatico) riesce a far cambiare opinione all’opinione pubblica: i magistrati non sono più gli eroici cavalieri senza macchia e senza paura, che hanno liberato l’Italia da un sistema di corruzione e malaffare che, secondo una prima stima di Mario Deaglio – come ricorda il già citato “Mani pulite. La vera storia” – “poteva essere valutato intorno ai 10mila miliardi di lire l’anno, generando un indebitamento pubblico tra i 150mila e i 250mila miliardi, con 15-25mila miliardi di interessi annui sul debito”.
Gli eroi sono diventati persecutori, comunisti, illiberali, odiatori seriali, invidiosi, golpisti che vogliono impedire a Berlusconi & Friends di liberare gli italiani da tutti i “lacci e lacciuoli” che impediscono loro di vivere la bella vita che desiderano e che, certamente, meritano.
(Se – come si insinua da più parti – la Magistratura fosse stata davvero il maglio utilizzato per abbattere la Prima Repubblica, aprendo, di fatto, la strada alla discesa in campo di Berlusconi, perché mai quest’ultimo l’avrebbe eletta “nemico pubblico n. 1” e combattuta, fino alla fine, con ogni mezzo? Non sarà che le ragioni di quella “guerra santa” risiedevano proprio nella consapevolezza che la Magistratura avrebbe, semplicemente, continuato a fare il proprio dovere, perseguendo [non perseguitando] il malaffare ovunque questo si annidasse?)
E, così, appena Berlusconi va al potere, si celebra una sorta di neo-“Settimana Santa”: l’ingresso trionfale in Gerusalemme del “Pool mani pulite” viene presto dimenticato e la Magistratura viene “processata”, “frustata” e, infine, “messa in croce” da quello stesso popolo che, solo pochi “giorni” prima, l’aveva portata in trionfo per tutto il Paese, cantando a squarciagola “Osanna!”. Ancora una volta, il popolo ha scelto: griderà “Barabba!”
Presidenzialismo di fatto
È questo il grande male che Silvio Berlusconi ci ha lasciato in eredità. Dalla sua discesa in campo, infatti, l’Italia non è più stata la Repubblica democratica parlamentare, voluta dalla nostra Carta costituzionale: “senza dubbio il migliore prodotto politico-culturale delle vicende del secondo dopoguerra” (Gustavo Zagrebelsky, “Tempi difficili per la Costituzione”, Laterza, 2023). Quella democrazia è stata trasformata in un Presidenzialismo di fatto, che va avanti come uno schiacciasassi, a colpi di decreti legge, delegittimando e riducendo all’impotenza/insignificanza, qualsiasi cosa non sia Governo, inclusi, naturalmente, Parlamento e opposizioni.
Un presidenzialismo nascosto (che, presto, diverrà manifesto) dietro la rassicurante maschera di una, vigorosa e volitiva, democrazia moderna: liberale (ma tutt’altro che liberal), cattolica (ma tutt’altro che cristiana), turbo-capitalista (con im-prenditori sempre più predatori), consumistico-edonistica (quella “cultura” che, già cinquant’anni fa, Pasolini considerava “il nuovo e più repressivo totalitarismo che si sia mai visto”: Paese Sera, 8 luglio 1974) e, naturalmente, sempre più esclusiva. Vale a dire, escludente. Per la serie “meno siamo, meglio stiamo!”.
Un presidenzialismo cesarista, che sembra pensato per realizzare alla lettera (deturpandone il senso, ovviamente) quel verso del Vangelo di Matteo (25,29) che recita: “A chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza. Ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”.
I Cesari – grandi o piccoli (Renzi, Conte, Salvini, Meloni…) – passano e continueranno a passare. Il cesarismo, no. Lui è qui per restare. E ci resterà per un bel pezzo, soprattutto perché, ancora una volta sarà l’opinione pubblica a invocarlo a gran voce. E, si sa: “vox populi vox Dei”.
Del resto, la nostra paura della libertà (e delle responsabilità che essa porta con sé) è talmente grande, che – anche se non lo confesseremmo nemmeno sotto tortura – noi umani preferiamo di gran lunga essere servi piuttosto che liberi. Dato che – come dice quel Grande Inquisitore che non smetterò mai di citare: “Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura”.
Il peccato è bello
Nessuno si oppone alla “morte dell’etica”, anche perché – come recita una folgorante battuta del film “Potere assoluto” – “vendere il peccato è facile”. E Berlusconi lo sa benissimo. Sa che niente ci attrae di più. E così, ci invita a liberarci, una volta per tutte, dei nostri tristi, anacronistici e inutili sensi di colpa, per godere, finalmente, delle mille meraviglie che la vita offre, le più seducenti delle quali promosse h24 da una programmazione tv – la sua – apertamente, gioiosamente ed esclusivamente epicurea, nel senso più deteriore del termine, naturalmente.
Ha ragione: il peccato è bello. Chi sostiene il contrario, mente. Non lo dico io: lo dice la logica. È evidente, infatti, che, se fosse brutto, nessuno peccherebbe. E non ci sarebbe alcun bisogno di umiliare le fedi religiose fino al punto di ridurle a un vademecum di precetti morali che nessun Dio ha mai dato e che servono soltanto a fornire, ad alcuni esseri umani, il pretesto “normativo” per esercitare controllo e potere su altri esseri umani.
In particolare, grida vendetta il fatto che, da millenni ormai, qualcuno impegni tutto il suo potere per farci credere che l’amore – universale, incondizionato e gratuito – di Dio si possa barattare con la rinuncia a cose tutt’altro che divine come – chessò – la masturbazione, i rapporti prematrimoniali o il sesso per il puro e semplice piacere del sesso. Come se l’amore di Dio fosse qualcosa che si deve guadagnare o meritare, o – peggio ancora – comprare. Se è davvero tale, l’amore non si guadagna, non si merita, non si compra: si vive.
Dio: un contabile delle nostre nefandezze?
Senza contare che se Dio, per amarci, ha davvero bisogno che noi rispettiamo certe patetiche regolette inventate da noi uomini, allora non è Dio.
Ve lo immaginate un Dio che passa l’eternità a spiarci dal buco della serratura, per tenere in ordine i libri contabili delle nostre nefandezze e, poi, ci aspetta al varco il giorno del Giudizio Universale per presentarci, finalmente, il conto? Ma che razza di Dio è? Un guardone, sadico e rabbioso che non vede l’ora di punirci per la natura che Lui stesso ci ha dato?
Davvero non riusciamo a immaginare un Dio che non sia il triste notaio delle nostre patetiche debolezze? E perché mai un Dio del genere avrebbe mandato sulla Terra il suo unico figlio a dirci di non avere paura della morte perché, grazie al suo sacrificio, risorgeremo a vita eterna? Cos’è? l’ha fatto per prenderci in giro? Per provocarci? Per illuderci e poi irridere la nostra credulità? E un essere così spregevole noi lo chiamiamo Dio?
Peccare, dunque, è bello. Bellissimo, in alcuni casi. Uccidere – ad esempio – ci consente di eliminare i nostri rivali, rendendoci più forti e più potenti. Rubare ci rende più ricchi, e ci permette di vivere quella vita serena, spensierata e felice che tutti sognano di vivere. Desiderare e possedere la donna d’altri, ci fa sentire più belli, più desiderati, più potenti, più “amati” e appaga di quel particolare appagamento che sembra siano in grado di dare soltanto le cose proibite. Testimoniare il falso consente di evitare di doverci assumere la responsabilità dei nostri crimini e dei nostri errori e, magari, attribuirli a qualcun altro. Oppure aiutare qualcun altro a farla franca, in cambio di una giusta mercede, s’intende.
Chi dice che il peccato è brutto, dunque, o lo fa nell’illusione di indurci a non peccare o lo fa perché – ben conoscendo e sommamente amando la bellezza del peccato – spera che, allontanando noi, avrà meno rivali nella corsa a tale bellezza.
Berlusconi era perfettamente, serenamente e orgogliosamente consapevole della bellezza del peccato. E, infatti, l’ha perseguita pervicacemente, con ogni mezzo, raggiunta e goduta per tutta la vita. È stato un grande gaudente. Il gaudente, anzi. A quanto sembra, nel nostro Paese, nessuno come lui ha goduto gli agi e i piaceri della vita. Prosit.
L’imbarazzante omelia di Delpini
Nell’imbarazzante omelia funebre – superbamente cattolica ma inquietantemente a-cristiana – Mario Delpini, Arcivescovo di Milano, ha definito la berlusconiana consapevolezza della bellezza del peccato “desiderio di vita, di amore, di felicità”. Come se bastasse tale “desiderio” – comune, peraltro, a tutti gli esseri umani – a giustificare, nobilitare, purificare i comportamenti dell’uomo e, quindi, ad assolverlo. Non agli occhi di Dio, attenzione. Agli occhi di tutti noi. È per noi, infatti, non per Dio, che certi spettacolini vengono messi in scena, con tanto di diretta tv multirete e maxischermi in piazza. A noi – non a Dio – appartiene l’ipocrisia. A noi – non a Dio – appartiene la falsità. A noi – non a Dio – appartengono adulazione, cortigianeria, lusinga, opportunismo, servilismo. Siamo noi – non Dio – ad aver bisogno di indottrinare e catechizzare le coscienze altrui.
Se – com’è apparso a tutti: berlusconiani e no, cattolici e laici [le parole tra i caporali sono dell’Arcivescovo di Milano] – «vivere e amare la vita. Vivere e desiderare una vita piena. Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e intendere la vita come una occasione per mettere a frutto i talenti ricevuti», assolve, di fatto – agli occhi della Chiesa e, di conseguenza, anche a quelli delle coscienze dei suoi fedeli (non solo italiani ma di tutto il mondo: ricordo che “cattolico” – dal greco καϑολικός – significa “universale”] – da ogni peccato, allora tutti dobbiamo dire: “grazie, Silvio”, “quia per gravem crucem tuam redemisti Italiam”.
Se – come è apparso a tutti – «amare e desiderare di essere amato. Amare e cercare l’amore, come una promessa di vita, come una storia complicata, come una fedeltà compromessa. Desiderare di essere amato e temere che l’amore possa essere solo una concessione, una accondiscendenza, una passione tempestosa e precaria», assolve, di fatto – agli occhi della Chiesa e, di conseguenza, anche a quelli delle coscienze dei suoi fedeli – “il ciarpame senza pudore” in nome del potere, le “vergini che si offrono al drago, per rincorrere il successo, la notorietà e la crescita economica”, un marito e padre di famiglia (quella stessa famiglia alla cui sacralità Chiesa e mondo cattolico sembrano tenere così tanto) che “frequenta le minorenni” (parole della ex-moglie Veronica Lario: “velina ingrata”, come la definì “Libero”, il 30 aprile 2009, con tanto di foto a seno nudo in prima pagina), allora tutti dobbiamo dire: “grazie, Silvio”, “quia per gravem crucem tuam redemisti Italiam”.
Se – come è apparso a tutti – «essere contento e amare le feste. Godere il bello della vita. Essere contento senza troppi pensieri e senza troppe inquietudini. Essere contento degli amici di una vita» assolve, di fatto – agli occhi della Chiesa e, di conseguenza, anche a quelli delle coscienze dei suoi fedeli – le “cene eleganti” a base di “bunga-bunga”, le Letizia, le Daddario, le igieniste dentali, le “olgettine” (più di una dozzina delle quali, fino al 2016, avrebbe percepito, tra i 3mila e i 5mila euro al mese, per il loro silenzio), le “nipoti di Mubarak”… allora tutti dobbiamo dire: “grazie, Silvio”, “quia per gravem crucem tuam redemisti Italiam”.
Se – come è apparso a tutti – il fatto che «quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. […] Guarda ai numeri a non ai criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari» assolve, di fatto – agli occhi della Chiesa e, di conseguenza, anche a quelli delle coscienze dei suoi fedeli – dalla spregiudicatezza morale, legale e sociale con la quale curiamo i nostri affari, allora tutti dobbiamo dire: “grazie, Silvio”, “quia per gravem crucem tuam redemisti Italiam”.
Nessuno può “raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”
«Ma in questo momento di congedo e di preghiera – conclude l’Arcivescovo di Milano – […] Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio».
Ecco: quest’ultima è – a mio personale e modesto avviso – l’unica affermazione autenticamente cristiana e non “viziata” dell’intera omelia. È vero: Berlusconi è un uomo, che – come ogni altro uomo – nel momento della morte, si presenta al cospetto di Dio. (Sempre ammesso che Dio esista, ovviamente).
Su tale soglia, però, tutti ci dobbiamo fermare. Credenti, non credenti, atei, agnostici. Nessun essere umano, infatti, può essere assolutamente certo dell’esistenza o inesistenza di Dio. Ma, soprattutto, nel caso Dio esistesse, nessun essere umano deve permettersi di metterGli in bocca le proprie parole né di anticipare il Suo giudizio.
A questo punto, però, delle due, l’una:
- A) o l’amore di Dio è davvero gratuito – non si conquista, non si merita, non si compra – e, dunque, Egli non smette di amarci nemmeno quando perseguiamo il nostro “desiderio di vita, di amore, di felicità” con metodi che si fanno beffe dei precetti morali di Santa Madre Chiesa. In questo caso, però, la Chiesa la smetta di utilizzare tali precetti come “merce di scambio” per aprire (o non aprire) – da Roma – le porte del Regno dei cieli (“A chi perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi li riterrete, saranno ritenuti”: Giovanni 20, 23);
- B) oppure tali precetti morali hanno davvero una loro ragion d’essere e, allora, devono essere rispettati da tutti. Nessuno escluso. Se nessun uomo, infatti, può considerarsi al di sopra della legge degli uomini, ancora meno egli può considerarsi al di sopra della legge di Dio.
A tutto questo, aggiungo – perché sia chiaro, una volta per tutte, soprattutto a quei “cristiani da pasticceria”, farisei e manichei che “si sentono come Gesù nel tempio” – che la Fede non è la teologia, la teologia non è la religione, la religione non è la morale, la morale non è la Fede. E la Chiesa non è nessuna di queste cose. Essa, infatti, non è altro che il farsi comunità (ἐκκλησία significa, infatti, assemblea) di coloro i quali hanno davvero Fede in Dio. (“Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”, Matteo, 18, 20).
Inoltre, come ha giustamente scritto Benedetto XVI – certo il meno “progressista” dei papi del terzo millennio – “Deus caritas est” (“Dio è amore”). Dunque se sappiamo amare (amare davvero, s’intende) e decidiamo di farlo, siamo in Dio; se, invece, non lo sappiamo fare o, pur sapendolo, decidiamo di non farlo non siamo in Dio. Punto. Il nodo è tutto e solo qui. Tutto il resto, non è altro che il mix di cipria, rossetto e profumo con il quale si cerca di imbellettare un cadavere in avanzato stato di decomposizione.
Morale? Desiderate. Desiderate tutto ciò che i vostri istinti – soprattutto i più bassi – vi spingono a desiderare: potere, soldi, sesso, droga, lusso e ogni genere di piacere e privilegio. E non preoccupatevi se, per soddisfare tali istinti e realizzare i vostri desideri, vi vedrete costretti ad (o sceglierete di) andare sia contro le leggi dell’uomo che contro quelle di Dio. Sentitevi pure liberi di violare le une e le altre. Penserà il prossimo Cesare a liberarvi dai “lacci e lacciuoli” delle prime (il “pizzo di Stato”, tanto per fare un esempio). Quanto alle seconde, lasciate fare Santa Romana Chiesa: se è stata così accogliente con Silvio Berlusconi
“Una condanna definitiva a 4 anni per frode fiscale sui diritti Mediaset; due amnistie (falsa testimonianza sulla P2 e fondi neri nell’acquisto dei terreni di Macherio); otto prescrizioni (corruzione di giudici per Mondadori; finanziamenti illeciti da All Iberian a Craxi; falsi in bilancio per i fondi neri su Gianluigi Lentini, per la contabilità Fininvest 1988-92 e per il consolidato Fininvest; corruzione del senatore Sergio De Gregorio; rivelazione di segreto con la telefonata Fassino-Consorte; corruzione del testimone David Mills); due proscioglimenti per aver depenalizzato il suo stesso reato (falsi in bilancio per All Iberian e per Sme-Ariosto); tre assoluzioni dubitative (corruzione della Guardia di Finanza, fondi neri per Medusa Cinema, corruzione Sme-Ariosto); tre assoluzioni piene (concussione e prostituzione minorile nel caso Ruby; frode fiscale nel caso Mediatrade; corruzione del testimone in uno dei processi Ruby-ter a Siena); un’archiviazione a Milano per traffico di droga; due archiviazioni per concorso nelle stragi del 1992 a Palermo e del 1993 a Milano, Roma e Firenze; cinque archiviazioni a Roma per i voli di Stato, la compravendita di senatori, il caso Saccà, il caso Sanjust e il caso Agcom-Annozero; sei archiviazioni a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco. Ha in corso tre processi (i Ruby-ter a Milano e a Roma per corruzione di testimone e il caso Escort a Bari per induzione a mentire di Gianpi Tarantini) e un’indagine a Firenze per concorso nelle stragi mafiose del 1993-94” [“Mani pulite. La vera storia”, Barbacetto, Gomez, Travaglio, Chiarelettere, 2014]).
perché dovrebbe chiudere le porte proprio a voi? Alle brutte, poi, potete sempre ricorrere alla confessione. Se hanno assolto un’anima come la sua, perché non dovrebbero assolvere voi? Basta che vi dichiariate pentiti. Che lo siate davvero o no, non importa a nessuno. In fondo, se non siete pentiti come dite al confessore, è solo Dio che prendete in giro. Ma Lui – lo sappiamo – ci ama comunque.
Solo una cosa, a questo punto, mi sfugge di voi “cristiani da pasticceria”: se prendete in giro Dio, significa che non credete in Lui. Ma, se non credete in Lui, perché sentite il bisogno di dirvi cristiani e di sapervi assolti dalla Sua Chiesa?
Per quanto mi riguarda, mi considero cristiano. Non un buon cristiano: semplicemente, un cristiano. Nel senso che cerco – il più delle volte, senza riuscirci – di essere il meno indegno possibile della parola di Cristo. Anche per questo, non auguro la morte a nessuno né la festeggio. Ma non festeggio nemmeno la morte di una democrazia. E, in certi casi – mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa – faccio davvero molta fatica ad amare i miei nemici, come chiede Gesù. Che ci volete fare: nessuno è perfetto. E io sono infinitamente meno perfetto di tutti gli altri.