Il Diavolo veste Prada. I sacerdoti, purtroppo, no.

Uno scrittore, Giuseppe Cesaro, due funerali e troppe parole superficiali e inutili pronunciate per tentare di spiegare davanti a una bara il senso profondo della vita, della morte e della resurrezione nella fede. Perchè il racconto della vita eterna è come il racconto del desiderio di bellezza della moda. Se è vero che il Diavolo veste Prada, perché allora Dio non dovrebbe vestire tutti i suoi sacerdoti con le parole giuste per darci l’illusione di capire ogni volta quello che non si può capire?
Non scandalizzatevi. Non adesso. Lo scandalo non è nel titolo: è più avanti. Pazientate e lo troverete.
Gli ultimi due eventi importanti ai quali ho partecipato, sono stati due funerali. A distanza di pochi mesi, siamo rimasti orfani di due anime rare, tra le pochissime che hanno lottato – non senza qualche successo – per rendere questo paese migliore: Salvino e César. Magistrato, il primo; artista il secondo. Grandi entrambi. Nel loro campo, certo. Ma, soprattutto, nel nostro: l’esistenza. Intelligenti, colti, sensibili; eleganti nel pensare, nel parlare, nell’agire; raffinati nell’ironia e nel senso dell’umorismo. Due anime alle quali, per esprimersi con inappellabile chiarezza, bastava mutare l’intonazione di sguardo e sorriso. Due fari per chiunque li abbia conosciuti e amati (perché conoscerli voleva dire amarli), che si sono uniti a quelle stelle fisse che aiutano gli umani a tracciare e mantenere la rotta nelle “troubled waters” della vita.
La morte vorrebbe silenzio. Noi, invece, non facciamo altro che imbrattarla di parole. Prima, durante, dopo. Parole mediocri, perlopiù. Spesso irritanti. Talvolta, addirittura, oscene. Parole che, quando si confrontano con il “tema dei temi”, mostrano ancora di più tutti i loro limiti, e finiscono col rivelarsi più dannose che inutili, dal momento che portano completamente fuori strada chi le ascolta.
Ho, ormai, sessant’anni, e ho partecipato a decine di funerali. Alcuni dolorosi, altri dolorosissimi, altri ancora devastanti. Solo una volta, però, ho ascoltato un sacerdote dire cose che non facevano rimpiangere il silenzio. Cose in grado di aiutare a capire cosa sia la morte. E – per contrasto – cosa sia la vita. La morte, infatti, è come la notte: permette di vedere quelle stelle che la luce del giorno oscura. È lei che, più di ogni altra cosa, insegna essenza, senso e valore della vita. Che, poi, sono le uniche cose che conti davvero capire. Tutte cose che, se non si capiscono di fronte alla morte, non si capiscono più.
Era la fine di settembre del 1978: in una brutta parrocchia davanti a un bel mare, si celebrava il funerale di mia madre. Una donna di appena cinquant’anni, che – non ancora ripresa dalla perdita di una bambina di meno di tre mesi – era stata aggredita e divorata da un tumore al seno, che l’aveva deturpata fisicamente, strappandole via mezzo busto ma non il sorriso. Di lei fatico a ricordare il viso ma non ho mai dimenticato la cicatrice che partiva dall’interno dell’avambraccio e arrivava fino a metà ventre, come fosse sopravvissuta per miracolo all’attacco di uno squalo. Il sacerdote era Gianni Baget Bozzo. Mio padre lo aveva ritrovato a Genova (dove mia mamma era ricoverata), dopo lo scisma intellettuale che li aveva separati: i “Socrati contrari”, li avevano soprannominati. Don Gianni – intelligenza vivacissima, cultura invidiabile, dialettica pirotecnica – non era ancora stato preso da quel delirio di egolatria che, qualche anno più tardi, lo avrebbe fatto passare dalle posizioni di anime quali Dossetti e La Pira a quelle di corpi come Craxi e Berlusconi. Tant’è. Quella volta disse cose alte, profonde, vere. Cose che non ho mai dimenticato. Avevo 17 anni, un conto aperto con Dio (in otto anni mi aveva preso una sorella e una madre) e, più di ogni altra cosa, detestavo bugie, melensaggini e stronzate. (Tutte cose che detesto ancora). Quelle parole furono le uniche, in quegli anni tormentati, che non offesero il mio dolore. E mi aiutarono a comprendere l’incomprensibile. Di più non si può. Mi bastò.
E me lo faccio bastare ancora oggi, visto che, a distanza di più di quarant’anni, non mi è ancora capitato di sentire parole come quelle. Non perdo la speranza. Ma, se dipendesse dalle parole che sento in certe chiese, la fede l’avrei persa da un pezzo. Che fine hanno fatto quelle parole? E dove sono finiti gli uomini che le sapevano dire? È vero: la morte vorrebbe il silenzio. Proprio per questo, però, se uno si sente vocato a un “mestiere” che lo costringerà a parlare molte volte davanti a una bara e al dolore, spesso inconsolabile, di chi resta, ha l’obbligo morale di prepararsi. Prepararsi in scienza (teologia), sapienza (umanità) e coscienza (onestà intellettuale e responsabilità). In una parola: verità. Perché le parole che dirà in occasione dei funerali peseranno infinitamente di più di quelle che pronuncerà per battesimi, comunioni, cresime e matrimoni.
È nel dolore, non nella gioia, che l’uomo misura senso e valore della fede.
Chi è Dio?, si chiede C. S. Lewis in “Diario di un dolore” (Adelphi, 1990), il libro che raccoglie i pensieri scaturiti dalla morte della moglie. Un “Sadico Cosmico”? Un “idiota malevolo”? “Un pagliaccio che ti strappa di mano la scodella di minestra e, un attimo dopo, te ne dà un’altra colma della stessa minestra?” E dov’è? Come mai quando il nostro bisogno di lui è disperato troviamo solo “una porta sbattuta in faccia”, “il rumore di un doppio chiavistello all’interno” e “poi, il silenzio”? Che la sua casa sia vuota perché non è mai stata abitata? Ma se Dio non esiste, perché ci sembra così presente quando non lo cerchiamo? E se fosse un semplice surrogato dell’amore, non avremmo perso interesse per lui da un pezzo? E se il nostro castello di certezze è crollato al primo colpo, non sarà perché era un castello di carte? Forse Lui “ha sempre saputo che il mio tempio era un castello di carte. L’unico modo per far sì che lo capissi anch’io era buttarlo giù”.
Dato che il sacerdote è il “medium ufficiale”, “l’interfaccia utente” tra noi e Dio, è dalle sue parole che dipende il nostro avvicinarci a o allontanarci da Dio; il nostro alzare o abbassare il pollice verso la fede. Sulle parole che l’uomo dietro l’altare ci rivolge grava, dunque, una responsabilità immensa. (Personalmente, dubito che me la assumerei). A volte faticano a convincerci persino quando hanno “la media dell’otto”, come possiamo sperare che superino l’esame di chi ascolta se faticano a raggiungere la “sufficienza” o, addirittura, precipitano verso il “non classificato”.
Davanti alla morte non c’è né può esserci spazio per parole vuote, spente, formule rituali e di circostanza; parole inanimate, senza cuore, senza intelligenza, senza cultura; senza voce, senza energia. In una parola: senza amore. Il dolore esige parole “dolorose”. “Parole di verità”, cioè, dal momento che la verità è quasi sempre dolorosa. Dolore vitale, però, non mortale. Perché le parole di verità sono parole di vita. Ed è la vita – e, dunque, la verità – l’unico antidoto alla morte. Se non siamo capaci di parole così, non abbiamo scelta: dobbiamo rimanere in silenzio. Penserà lui – il silenzio – a rivelare a chi ci ascolta ciò che noi non siamo capaci di dire.
Per chi resta, la morte è deserto. E, nel deserto c’è bisogno di acqua, non di qualcuno che non lo sta attraversando ci dica “questo è un deserto” e ci spieghi cos’è l’acqua. E ancora meno c’è bisogno di qualcuno che non sa cos’è l’acqua o non sa nemmeno che è di essa che c’è bisogno.
“Tu solo hai parole di vita eterna”, dice Pietro a Gesù, confessando tutta la propria umana inadeguatezza. Inadeguatezza della quale nessuno si deve vergognare. Siamo umani, appunto. Nessuno, però, deve nasconderla e negarla. E meno che mai dissimularla o mistificarla. Soprattutto dall’altare. Sai che le tue parole sono inadeguate? Nessun problema: affidati alle Scritture. Sono piene di parole straordinarie: acqua per qualunque deserto.
C’è bisogno – e vengo al titolo – di tante “Miranda Priestly”, non dei nipotini – stupidi, incolti e balbuzienti – di don Abbondio. Chi è Miranda Priestly? Ricordate la strepitosa Meryl Streep de “Il diavolo veste Prada”? Lei è Miranda Priestly. Ricordate la scena nella quale massacra la sua nuova assistente – Andrea “Andy” Sachs (Anne Hathaway) – a proposito del fatto che non riesce a cogliere la differenza tra due cinture apparentemente identiche? La domanda è: perché pretendiamo che i professionisti ai quali ci rivolgiamo – dall’ultimo degli imbianchini (sia detto senza alcuna mancanza di rispetto) fino al primo tra i principi del Foro o tra i luminari della medicina – siano super-preparati, e non pretendiamo lo stesso da chi, invece dei nostri corpi ha deciso di prendersi cura delle nostre anime, spiegandoci che la morte è morta e che, se avremo fede, avremo la vita eterna? Perché non chiediamo uguale “scienza” a chi dovrebbe aiutarci a capire cosa significa amare, dal momento che l’unica chiave in grado di aprire le porte dell’eternità è, appunto, l’amore? “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Giovanni: 15, 12). Un comandamento che ingloba – di fatto annullandoli – tutti gli altri. È del tutto evidente, infatti, che chi ama non uccide, non ruba, non commette adulterio, non testimonia il falso, non desidera la moglie, la casa e le cose degli altri…
Senza contare che la fede cristiana non è una morale! Cosa significa? Che il Paradiso non si conquista “facendo i bravi”, rispettando il catechismo e non peccando. Anche perché, se la vita eterna dipendesse dai nostri comportamenti, saremmo tutti spacciati! La vita eterna si conquista avendo fede. La fede è la chiave. «Io sono la risurrezione e la vita – dice Gesù – chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno». E, ancora: «Va’, la tua fede ti ha salvato» (Mc: 10, 52). Non dice:
«Chi non commette atti impuri avrà la vita eterna». Dunque è la fede che salva, non la morale. Questo, ovviamente, non significa che i cristiani possono fare come gli pare, tanto Gesù è “buonista” e, alla fine, li salva tutti.
Significa, semplicemente, che è la fede e non il peccato il cuore della fede cristiana. «Sapendo, tuttavia, che l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno». (Gal 2, 16) Rileggiamo: «dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno». «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?». Gesù rispose: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6, 26-29). Va da sé che la morale (il nostro comportamento) dipende dalla fede: come ho detto: chi ama non viola i comandamenti. Ma il primato è della Fede, non della morale. E il primato della Fede si sostanzia nell’amore: “Amate e fate ciò che volete”, dice Sant’Agostino. «L’amore è paziente, è benigno l’amore; non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non avrà mai fine», scrive San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi.
O amiamo o muoriamo, dunque. Sia qui che “di là”. Questo è. Tutto il resto è fuffa: fondotinta, cipria, fard, rimmel; dopobarba, giacca, cravatta e polsini. Fuffa.In questo senso (e solo in questo senso, ovviamente) vorrei che anche i sacerdoti, e non solo il diavolo, “vestissero Prada”. Vorrei, cioè, che conoscessero le cose della fede allo stesso modo nel quale Miranda Priestly conosce quelle della moda.
È chiedere troppo? O, forse, la moda è più importante di Dio? Se, dal pulpito, predicasse qualcuno come lei, forse, finalmente, riusciremmo a capire le differenze abissali che passano tra parole che consideriamo sinonimi: Dio, Cristo, Spirito Santo, Fede, Religione, Chiesa, Teologia, Morale, Dottrina e Catechismo. E, forse, capiremmo che tra applicare il catechismo e amare Dio c’è una distanza maggiore a quella che separa il nostro sistema solare dalla più remota delle galassie. Possiamo prendere in giro noi stessi, la nostra famiglia, i nostri amici, il nostro parroco, il vescovo e anche il papa. Una cosa, però, è certa: non possiamo prendere in giro Dio. Se non altro per il fatto che, se ci riuscissimo, saremmo noi Dio. Ma, poi: mi spiegate che senso ha prendere in giro il Dio nel quale decidiamo di credere?
Se, dal pulpito, predicassero tante Miranda Priestly magari, ci renderemmo, finalmente, conto del fatto che, come dice papa Francesco, non siamo altro che “cattolici da pasticceria”: agnelli in chiesa, lupi in piazza, e profondamente “farisei” (falsi e ipocriti, cioè) in entrambe.
Magari ci renderemmo conto che la fede che indossiamo, sentendoci superiori, non è altro che un infeltrito maglioncino da bancarella e ce ne vergogneremmo, e faremmo di tutto per indossare un abito spirituale e mentale firmato dal più grande stilista di anime che l’umanità abbia conosciuto.
E, per quanto mi riguarda, magari al prossimo funerale proverei meno forte la tentazione di alzarmi e andarmene o dare scandalo, mettendomi a gridare, nel bel mezzo della messa, “Ma come parlaaaa!!! Le parole sono importantiiiii!!!”