Cari libri gialli, io vi accuso…

I gialli hanno rotto il cazzo. Ecco: l’ho detto. Non si può dire? Certo che si può. Si deve, anzi. Non sarà elegante, lo ammetto, ma è la verità. E la verità quasi mai è elegante. Dovremmo saperlo, ormai. Guarda alla sostanza, lei, non alla forma. Le interessa la Luna, non il dito. Quello lo lascia a noi, in modo che possiamo continuare a ubriacarci di smartphone e telecomandi. E, soprattutto, sollevarlo rabbiosamente, per mandarci affanculo, ogni volta che qualcuno – logica, scienza o semplice buon senso – ci pone davanti al fatto che tra le nostre convinzioni personali e la verità c’è una distanza siderale. Non ci sono stati, forse, interi millenni durante i quali eravamo tutti convinti che la terra fosse piatta come un vinile, che finisse alle colonne e che il Sole le girasse intorno? Le convinzioni sono il nutrimento più importante di quella stupidità che è maggioranza assoluta sul pianeta. Stupidità contro la quale, come ammoniva Bonhoeffer, non c’è niente da fare.
Alla verità, la Luna di tanta parte dell’editoria non piace. Neanche un po’. Perché? Perché è finta. Finta come Cher o Mickey Rourke dopo l’ennesimo ritocchino! A cosa diavolo servirebbero, altrimenti, le tonnellate di make-up nelle quali si avvolge, se non a cercare di coprire un vuoto imbarazzante? Avete mai visto la verità andarsene in giro truccata? Andiamo! Ci hanno provato in tanti a truccarla, è vero. Quasi tutti, ad essere onesti. Nessuno, però, ci è mai riuscito. Prima o poi, la maschera cade, e – per qualche fuggevole, meraviglioso istante – l’uomo si ritrova faccia a faccia con lei. Folgorazione intensissima ma brevissima. Subito dopo, infatti, abbassiamo lo sguardo e ci voltiamo dall’altra parte. Non c’è niente da fare, davanti alla verità, noi esseri umani proviamo un terrore identico a quello che proviamo davanti alla libertà. Lo sa, fin troppo bene, l’illuminante Inquisitore dostoevskiano:
Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura.
Cosa intendo per gialli? Presto detto: quei libri che si leggono solo per sapere come vanno a finire. Inutili, come un paio di occhiali da sole in piena notte. Tranquilli: non parlo di capolavori assoluti come Delitto e castigo o Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, né de Il giorno della civetta o de Il nome della rosa; non parlo nemmeno de La promessa o di A sangue freddo, solo per ricordare i primi titoli che mi vengono in mente. E certo non parlo di Edgar Allan Poe o Georges Simenon. E nemmeno di Graham Greene (chi era costui?) o Raymond Chandler. Giganti che pochissimi leggono, e che orde di “pubblicati” (gli scrittori sono tutt’altra cosa) tirano in ballo ogni volta che sentono il bisogno di giustificare il loro ennesimo, inutile, paio di occhiali da sole. Excusatio non petita, accusatio manifesta. Giganti che tutti citano ma nessuno legge. E che, a parte rarissime ricorrenze, fanno capolino in classifica più o meno a ogni dimissione di pontefice.
Non mi riferisco, dunque, alla cosiddetta “letteratura di genere”. Definizione, per me, incomprensibile, dal momento che credo esistano soltanto due tipi di letteratura: quella che è tale, e quella che tale non è. Punto. Chi lo stabilisce? La Storia. L’unico giudice che non sbaglia mai una sentenza. E il cui giudizio è inappellabile.
A questo proposito, mi viene in mente una sera di qualche anno fa, nella quale mi ritrovai a cena accanto ad Asor Rosa. Il discorso cadde, inevitabilmente, sui libri e ne approfittai per chiedergli cosa ne pensasse dei contemporanei, citando tre nomi che mi sembravano al di sopra di ogni sospetto: Gadda, Pasolini e Calvino. “Quella è letteratura in fieri – rispose, serio – lo dirà la Storia se è vera letteratura o no”. “Dunque – replicai (memore di un paio di annualità sostenute con lui una ventina d’anni prima) – Dante, Petrarca, Boccaccio?”. “Assolutamente – confermò, sorridendo con aria severa: Dante, Petrarca, Boccaccio!”.
Chissà cosa direbbe di certa letteratura che, più che di genere, è degenere: quei cocktail imbarazzanti di banalità, stereotipi, manierismi, dialoghi osceni e frasette accalappia ingenui, che affollano librerie e classifiche, i cui miscelatori – a turno – ci blandiscono, carezzevoli, dai salotti televisivi. Sempre gli stessi, in ogni programma di ogni rete, come una compagnia di teatranti d’avanspettacolo, che fa il giro delle province, scambiandosi numeri, battute e posti in cartellone.
Se il grande Fortebraccio fosse ancora tra noi, entrando in libreria, molto probabilmente commenterebbe:
Mai visto un cassonetto per la carta tanto ordinato!
Crediamo di leggere e, invece, buttiamo il nostro tempo. E, cosa ancora peggiore, inquiniamo le falde della coscienza. Le avveleniamo, anzi. C’è differenza tra bere un bel bicchiere d’acqua fresca e uno di trielina. Sempre di bere si tratta, gli esiti però sono opposti: il primo dà la vita, il secondo rischia di togliercela.
Leggere non è un bene di per sé. Leggere bene è un bene. Leggere male è un male. In libreria (come dovrebbe essere ovunque) uno non vale uno. Ci sono autori e autori, libri e libri. Non bisogna leggere per leggere. Bisogna leggere ciò di cui testa, cuore e coscienza non possono assolutamente fare a meno, nello stesso modo nel quale il nostro corpo non può fare a meno di respirare, nutrirsi e idratarsi. Se la bellezza salva il mondo, la bruttezza lo condanna a morte. Vogliamo davvero infoltire le fila del plotone d’esecuzione?
Penso, soprattutto, ai cosiddetti romanzi “da ombrellone”. Una definizione che la dice lunga sul genere di attenzione che il senso comune riserva all’idea della lettura. Un passatempo come un altro. Anzi: peggiore degli altri, perché più noioso e più pesante. Una fatica necessaria, alla quale ci sottoponiamo unicamente nella speranza di fare bella figura tra gli amici, in ufficio o in società, dove darsi un tono, talvolta, è necessario, e una bella citazione – si sa – fa sempre punti.
Leggere non è passare il tempo. Che, tra l’altro, passa molto più in fretta quando non leggiamo. È conoscere il tempo, capirlo, viverlo. O è questo o è una stronzata. Non mi pare che il nostro tempo difetti di stronzate: davvero sentiamo il bisogno di aggiungerne altre?
Queste discariche di parole hanno, ormai, invaso ogni spiaggia. Reale o figurata. Quegli “ombrelloni” li apriamo ovunque: sul divano di casa, a letto, sulla Metro o sull’autobus, sulla panchina dei giardini o nelle sale d’attesa. Tutto, pur di non leggere qualcosa che meriti davvero di essere letta. Leggere spaventa. E così, ci affidiamo a qualche surrogato. Come se il nostro cervello avesse perso i denti e fossimo costretti a imboccarlo di omogeneizzati. Tranquilli: se continueremo così, i denti li perderà molto presto. E gli omogeneizzati saranno l’unico cibo che riuscirà a ingurgitare. E non sarà un bel giorno per nessuno.
“Che male c’è? Avremo pure il diritto di staccare la spina, distrarci, sciacquarci un po’ la testa, no? Di problemi ne abbiamo fin sopra i capelli! Non solo: visto che, in questo mondo, non c’è una cosa – una sola – che vada come deve andare, se non altro nei gialli tutto quadra, le cose funzionano, chi sbaglia paga e gli stronzi fanno la fine che si meritano!”.
Tutto giusto, per carità. Il male, però, c’è. Eccome. Anche se non ce ne accorgiamo.
Ed è proprio per questo che il danno è doppio. Questo genere di libri, infatti, è molto più che inutile: è dannoso. Perché toglie spazio – nei cataloghi degli editori, sugli scaffali di librerie e case e, soprattutto, nelle coscienze di chi li legge – ad autori e libri che meriterebbero di entrare in quei cataloghi, librerie, case e coscienze e, invece, sono condannati a restarne fuori, dato che il loro posto e il tempo che potremmo dedicare loro sono stati usurpati da altri.
Nel 2019, in Italia, i titoli pubblicati hanno superato quota 86mila (Istat). Ottantaseimila, avete letto bene! In media 237 al giorno. Pensate siano ottantaseimila Anna Karenina o Guerra e Pace?
Davvero crediamo che ci siano in circolazione quasi novantamila Tolstòj? Come dite? “Non possiamo mica pretendere che nasca un Tolstòj al giorno!”. E chi lo pretende. A maggior ragione, allora, dobbiamo approfittare della miracolosa circostanza che ne sia nato almeno uno! Lui non c’è più, ma i suoi libri – vivaddio! – sono ancora qui. Mica ci ha vietato di leggerli il Comitato tecnico-scientifico! Niente Tolstòj, d’accordo. Diciamo, allora, novantamila Gadda, Pasolini o Calvino? Voliamo ancora troppo alto? Vogliamo provare con novantamila Bufalino, Parise o Morselli? O, forse, novantamila La Capria, Magris, Tabucchi? Fatemi capire: quali novantamila avete in mente, eh? Lasciamo stare, per carità di Patria: preferisco non saperlo.
Ma c’è un problema persino più grande di questo. Sempre secondo l’Istat, quattro italiani su dieci leggono almeno un libro all’anno. Non molto, vero? Tant’è. La domanda che dobbiamo porci, però, è: se l’unico libro che leggiamo durante l’anno fa cacare (cosa tutt’altro che improbabile, dato un numero così alto di titolo pubblicati: due terzi dei quali – 58,4% – sono novità), siamo sicuri che non sarebbe meglio rinunciare anche a quello? Leggessimo un libro a settimana, un “romanzo da ombrellone” ci starebbe pure, un po’ come un sorbetto al limone dopo un signor piatto di pesce. Ma, se leggiamo solo un libro all’anno e sbagliamo persino quello, beh, allora, somigliamo a chi confonde la merda con la cioccolata, e si chiede persino se si tratti di “Criollo Porcelana” o “Guasare”!
Non intendo mancare di rispetto né offendere nessuno: né “pubblicati” né lettori. L’offesa all’intelligenza, però, è insita in un così stratosferico numero di uscite: quasi dieci ogni ora; una ogni sei minuti! C’è davvero bisogno di questa orgia di titoli? Davvero, ogni anno, più di ottantamila opere devono, assolutamente, essere pubblicate e lette? Non scherziamo, per favore.
Chi sceglie? E in base a quali criteri, visto che è del tutto evidente che la qualità interessa nessuno o quasi? Nessuno si chiede quale sia l’effetto dell’inondare librerie, case e coscienze di junk-book? Di spazzatura – reale e metaforica – ce n’è fin troppa nelle nostre vite. Sentiamo davvero il bisogno di aggiungerne altra? Evasione? Balle. Non si evade da un cassonetto per buttarsi in un altro cassonetto, persino più maleodorante del primo. Se si evade, lo si fa per cambiare aria. E Dio sa se ne abbiamo bisogno!
Basta scorrere le classifiche con occhi liberi e onesti, per rendersi conto del fatto che un libro – italiano o straniero – che meriti davvero di essere letto è praticamente introvabile. Le librerie sono diventate giungle impenetrabili nelle quali – prima di riuscire a trovare un fiore profumato, un frutto saporito o un sorso d’acqua fresca – bisogna farsi largo a colpi di machete, tra ogni genere di orrore. Una ricerca che, il più delle volte, si rivela infruttuosa, e lascia dentro un misto di incredulità, sconforto e rabbia.
Da più di un anno, scrivo di libri su “il Fatto Quotidiano” e, dato che scelgo io i titoli da recensire, confesso che, più di una volta, ho faticato a trovare qualcosa di cui valesse la pena parlare. Perché deve essere così? Frequento le librerie dalla prima metà degli anni Settanta e garantisco che le cose erano molto diverse. E lo sono state a lungo. Perché, dunque, una débâcle come questa dalla quale, probabilmente, non ci riprenderemo mai?
È l’invidia che mi muove? Sparo a zero sui signori delle classifiche perché vendono decine di migliaia di copie mentre io non sono ancora riuscito ad andare oltre le poche centinaia? È la solita vecchia storia della volpe e dell’uva? Magari fosse così. Il problema sarei io e non lo stato dell’arte letteraria. Senza contare che, di quando in quando, vendo anch’io. Non con il mio nome. Non ancora. Qualcuno degli oltre trenta titoli scritti come ghost in questi vent’anni di parole, però, ha venduto. Sono riuscito a piazzare un paio di best seller. E persino a vincere qualche premio. Volpe e uva, dunque, non c’entrano affatto. Se, però, pensarla così rende la pillola meno amara, liberissimi di farlo.
Il successo degli altri non mi ha mai turbato. Al contrario: sono felice per loro. Riuscire a vivere di parole, oltre che difficilissima, è impresa nobilissima. Infinitamente più nobile di moltissime altre. La maggior parte delle quali assai più facili e decisamente meno importanti. Onore al merito, dunque. Dispiace, però, che proprio chi sa e può, una volta che riesce a entrare a far parte della scintillante compagnia di giro dei “classificati”, rinunci a proporre copioni migliori e si accontenti delle solite pantomime, beandosi di essere sul palco dei vincitori, e non preoccupandosi affatto di trasformare quel palco in un posto sul quale valga davvero la pena salire.
Per parafrasare l’autore di parole migliori delle mie, potrei dire:
Colleghi [cant]autori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni, voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni. Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete, un [critico] fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate.
Se ho deciso di lanciarmi in questo j’accuse contro i libri da ombrellone, è solo perché credo che il piano inclinato sul quale stiamo rotolando sia potenzialmente devastante. Quanto ancora ci metteremo a renderci conto del fatto che il re della narrativa è nudo? Nudo e agonizzante, temo. Mai a tanta quantità è corrisposta tanta mancanza di qualità. E non è vero che quantità e qualità non possano andare d’accordo. Nessuno ha venduto tanti dischi quanti i Beatles, e nessuno ha prodotto dischi belli come i loro. Allo stesso modo, però, vendere tanto non significa, automaticamente, valere tanto. Anche Toto Cutugno – lo dico senza alcun intento offensivo – ha venduto milioni e milioni di copie. Oltre 100. Più di Bocelli, Pausini, Morricone, De Andrè, Zucchero, Modugno, Baglioni, Dalla o De Gregori. Tanto di cappello, dunque. Nessuno, però, si sognerebbe mai di paragonare Toto Cutugno ai Beatles. Quantità e qualità, dunque, possono convivere perfettamente. Ma, ahimè, non è il caso della narrativa contemporanea.
Contrariamente a ciò di cui, comunemente, siamo convinti, il romanzo è né tema né storia né trama né intreccio. Chi crede che la letteratura risieda in questi elementi, sbaglia. E sbaglia, soprattutto, chi crede che la chiave di un grande romanzo sia in un bell’intreccio: parliamo di letteratura non di ceste di vimini!
Da Omero in qua è stato scritto tutto. Tutti i temi, tutte le storie, tutte le trame, tutti gli intrecci sono stati già sperimentati. Mille e mille volte. Da mille e mille penne. Moltissime delle quali così grandi che è impossibile immaginare di competere con loro. Non solo: da allora, sotto il cielo del mondo, non è apparso nulla di nuovo. Lo diceva già il Qohelet, tre o quattro secoli prima di Cristo. E chissà da quanto tempo, l’umanità ne era consapevole.
Esseri umani e vita sono gli stessi da sempre. E resteranno gli stessi per sempre. Cosa cambia, allora? L’effetto che il vivere fa su ciascuno di noi. Il “raggio di luce” dell’esistenza ci colpisce tutti nello stesso modo. Il “prisma” della nostra sensibilità, però, scompone quel raggio in una iride unica, diversa da tutte le altre. La letteratura è la capacità – dono, soprattutto – di cogliere fino alla più piccola sfumatura di quell’iride e trasformarla in parole, rivelando al mondo colori che solo chi ha ricevuto quel dono vede. E che, da quel momento, vanno ad arricchire la tavolozza dell’umanità.
La letteratura, dunque, è scrittura. Punto. Mettiamocelo in testa una volta per tutte. Il resto – tutto il resto – è contorno. Il “letto” di rucola su cui ci servono una succulenta Robespierre. Se c’è bene. Se non altro, fa colore. Ma, se non c’è, non se ne accorge nessuno. Provate, invece, a togliere la bistecca: vediamo se il cliente se ne accorge.
In letteratura conta il come, non il cosa. Un cosa importante in una scrittura indecente non è letteratura. Un cosa indecente in una scrittura sublime, sì. Un cosa sublime in una scrittura sublime è arte.
I veri romanzi sono pugni, non carezze; morsi, non baci; grida, non sussurri. Ci costringono a vedere ciò che ci rifiutiamo di guardare, ad ascoltare ciò che ci rifiutiamo di sentire, a pensare a ciò a cui non vorremmo mai pensare, a fare ciò che daremmo qualunque cosa pur di non essere dispensati dal fare.
Perché ci conoscono meglio di chiunque altro. Persino di noi stessi. E, come specchi rivelatori, ci mostrano, impietosamente, la nostra vera identità. Quella che non saremmo disposti a rivelare a nessun altro e, meno che mai, a noi stessi, nemmeno sotto tortura. Ci denudano difronte alla persona che temiamo di più: noi stessi. Ce la sentiamo di affrontarli e guardarci dentro fino in fondo? No, evidentemente. Nessun Fortebraccio, altrimenti, entrando in libreria direbbe mai: “Ho aperto un sacco di libri ma dentro non c’era niente: erano gialli”.